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di Antonio Brizioli

 

Era domenica, ieri. Una delle poche domeniche in cui ho avuto la fortuna di alzarmi presto la mattina, cioè alle 11. La domenica mattina è uno stato d’animo prima che un momento della settimana: con poca gente e tante sensazioni. Il pensiero che mi ha mosso è stato il seguente: ma il filo rosso? Non è che dopo tutte le turbolente e tempestose vicende, ce lo siamo dimenticati proprio ora, che incornicia i cieli accarezzato di tanto in tanto da qualche tentativo di vento? È normale, ci si abitua a tutto, alle fortune, ai dolori, ai prodigi. La presenza è dimenticanza, l’assenza è ricordo.

Fatto sta che mi sono recato nel luogo in cui il filo ispira gli effetti paesaggistici più meravigliosi, guarda caso anche il meno transitato fra quelli che attraversa: la parte alta di corso Garibaldi. Armato di una macchina fotografica imbracciata in modo rudimentale e di quella solita voglia di perdersi, accentuata da qualche postumo domenicale.

Non appena sul posto individuo una coppia di turisti inglesi intenti proprio a fotografare la via tessuta dal filo. Li avvicino e con un inglese abbastanza competitivo (TOEFL 103/120) spiego loro la storia di quel filo e la storia del progetto Emergenze, dilungandomi anche un poco sulla bellezza della carta. Mi ascoltano in silenzio per otto minuti poi la signora prende la parola e dice: “Ma questa cosa del filo è stupenda, come è possibile che non sia segnalata da nessuna parte?”. A mia volta attendo trenta secondi prima di rispondere fra l’eroico e il grottesco: “Vedi sorella, non si può essere contemporaneamente sulle guide e sui libri di storia…”. Sorride e, seppur attraverso modalità inconsuete, abbiamo due fan in più.

Veniamo ora a quel capolavoro di spontaneismo e sospensione che è corso Garibaldi di domenica mattina.

Parco Sant’Angelo. Non sono un appassionato del giardino all’inglese ma è veramente spiacevole il fatto che a un parco così bello e strategico non siano garantite condizioni di fruibilità. Erba alta fino al petto. Ovviamente la perplessità non sconfina nello sdegno, per cui abbraccio il parco così com’è. E mi piace.

Il Cassero, o la Torre come si vuole qui. Luogo per noi estremamente significativo, non sarà facile dimenticare la nostra ascesa, con uno sguardo a 360 gradi, un po’ alla strada percorsa (poca) e un po’ a quella da percorrere (troppa). Perugia era una città di torri, ce n’erano decine nel medioevo, oggi resta poco, ma se resta c’è un motivo.

La toponomastica. Qui vanno spese due parole. Una delle cose più belle di Perugia sono i nomi delle vie. Se avessero dato incarico a un poeta dei migliori di dare un nome alle traverse di corso Garibaldi, non credo che avrebbe saputo fare di più: via del Gallo, via della Cometa, via dell’Oro, via del Pepe, via della Cera, via della Pietra, via del Canerino, via della Rondine. E da ultimo, una vera prodezza linguistica: via Persa. Chiamare “persa” una via, cioè qualcosa che per sua natura dovrebbe indicare, dare certezze e confortare, è una sorta di errore meraviglioso il cui apprezzamento è concesso solo agli intuiti più eccitabili. Una via dedicata a chi ha perso la via. E se c’è una spiegazione più scientifica non datemela, non voglio sentirla.

Perso com’ero dopo un’ora di su e giù affianco una vecchia ingobbita che fa per parlarmi. Colgo il tentativo e mi fermo. Senza riuscire a guardarmi negli occhi perché troppo ricurva mi fa: “Quanto è alto lei, due metri?” “No signora, poco più di 1,80” “No no, lei deve essere due metri perché mi ricorda mio marito”. A quel punto non me la sento più di contraddire: “Effettivamente signora non mi misuro da un po’…”. “Sa come ci chiamavano a me e mio marito?” “No, mi dica…” “Ci chiamavano la chiesa e il campanile.”

Non è il caso di spingersi oltre. Riporto a casa il mio metro e ottantadue, con qualche incertezza in più riguardo pesi e misure.

Qualche foto amatoriale di questa passeggiata:

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