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di Antonio Cipriani
Quando Tommaso Verga, il mio maestro, mi ha chiesto di scrivere su Vittorio Occorsio, a quaranta anni dalla sua uccisione, si sono spalancate nella mia memoria le porte delle tante inchieste, della necessità storica che ha animato il nostro percorso umano e giornalistico, del “per non dimenticare” che ha innervato lo studio, il lavoro, la vita stessa di molti di noi.
Ecco, tanti tanti anni dopo, provo fatica e dolore nello scrivere che di Occorsio sappiamo tutto: chi l’ha ammazzato e come quel 10 luglio del 1976. Sappiamo che era un magistrato con un certo fiuto e con tanto coraggio, che aveva colto il nesso tra eversione fascista, ambienti massonici e intelligence (come si dice oggi per alleviare il senso di gioco sporco e privare della parola segreto quel servizio che non sempre ha garantito democrazia e civiltà). 
Sappiamo tutto, ma non sappiamo chi ha armato quella mano. Niente dei mandanti. Solo assassini apparentemente con motivazioni salde. Niente su chi ha scatenato nel nostro Paese, dagli anni Sessanta in poi, la strategia della tensione, la guerra contro le nostre libertà e contro la sovranità nazionale, che ci ha condotti su questa soglia storica. Nudi, privi di conoscenze reali, in balia di potentati invisibili e intangibili, di un sistema finanziario internazionale indiscutibile. Immersi in una narrazione tossica, fatta di certezze assolute veicolate dalla branca militare più potente e funzionante, quella della propaganda.
Oggi più che mai attraversiamo il sentiero stretto di questa democrazia incompiuta. Oggi più che mai l’opacità di forze estranee alla dialettica politica e alla democrazia che immaginavamo, ci appare più presente, più incisiva. E determina scelte nazionali, grandi opere, azioni militari, operazioni umanitarie a suon di bombe, decisioni economiche suicide che indeboliscono il Paese e lo rendono ostaggio di chissà quali poteri. Oggi più che mai la fragilità della nostra democrazia appare evidente, crinata da qualcosa di ineffabile, di non raccontato fino in fondo, senza gli anticorpi della partecipazione, dell’informazione, della cultura. 


Mi fa venire i brividi pensare che Occorsio sia stato ucciso perché aveva colto in anticipo l’esistenza di quella camera di compensazione assurda – con al centro la P2, quindi la mano reazionaria militarista massonica americana – in cui si sono incontrate le necessità storiche non rivelabili ai cittadini inconsapevoli e le soluzioni inconfessabili. Mi fa dolore pensare che poi la storia ha dichiarato come vincente quella stanza dei misteri col suo piduismo – per semplificare – che si è nascosto tra le pieghe della società e l’ha innervata. Che rabbia ripensare agli anni Novanta, alla gioiosa macchina da guerra che ha cominciato a dimenticare come il futuro della nostra libertà si basasse sulla verità condivisa da tutti e non da pochi.
Come spesso accade nella storia, dietro l’illusione rivoluzionaria di Tangentopoli, dietro la certezza della sinistra di avere ormai il governo nelle mani, è passata silenziosamente una restaurazione con tanto di annichilimento culturale. La brutalità che percepiamo come normalità, che ci fa pensare a una società basata su modelli incivili, sicuramente meno orientati alla giustizia sociale e al rispetto, non è cosa di oggi. Nasce dal passato remoto. Attraversa il ventennio berlusconiano, rigenerandosi e assumendo una scintillante visibilità mediatica, ma ha le radici nella perdita di identità, quindi di cultura dell’informazione, di senso critico. 

Hanno preso il potere gli accomodanti di tutte le stagioni, i cantori del modernismo senza radici, gli interpreti superficiali di una società che non vuole più riflettere sulle proprie condizioni, ma solo esercitare un diritto al risentimento. A qualcosa che fa rumore ma non lascia traccia. Che cambia apparentemente le regole, ma nella linea più profonda tracciata.

L’ultima beffa: il concetto di verità applicato alla narrazione. Come se la post-verità mediatica fosse un problema di oggi. Camminiamo sulle macerie di quello che poteva essere e non è stato. Non certo perché così è giusto, ma perché viviamo nelle democrazie del segreto. In cui vige il principio – accettato passivamente – che solo alcuni detengono il sapere e lo trasformano in azione e potere; gli altri votano, comprano, protestano per il degrado, governano città, Paesi interi. Senza possedere le chiavi per la verità. Perché queste chiavi non servono più, le nostre democrazie sono costruite sul vuoto di memoria, sulla rimozione delle cause che hanno sconvolto le nostre vite, con le stragi, il terrore, le mafie, i piduismi. 
Sono costruite sulla facciata della democrazia in cui il cittadino delega alla politica la propria libertà, le scelte e l’accesso alla verità stessa. Una delega sterile, visto che la finanza sovranazionale ha espropriato i Paesi della propria sovranità, come il governo militare e spionistico sovranazionale ha da sempre considerato il segreto come base strategica per gestire gli affari di potere senza troppe rotture da parte dei cittadini stessi.
Caro Tommaso Verga, mi hai chiesto un’analisi partendo dal delitto Occorsio, e questo penso. Abbiamo detto che occorreva non dimenticare e invece viviamo in una società che vive sull’equivoco della memoria obliata. Non c’è stato alcun premier in grado di mettere mano sui significati del vento di sangue ed eversione che ha destabilizzato il nostro Paese per decenni. E che continua ad agire indisturbato, neanche più – come dicevamo un tempo – per l’esistenza di un doppio stato. Ma perché lo stato ha abdicato ai suoi compiti. Ha rinunciato alla sovranità e alla verità. Agisce sulla parte bassa della vita comunitaria, senza giustizia civile, diritti, etica e conoscenze condivise. In uno spazio che rivendica decoro e accetta il degrado morale, che si allarma per i migranti e combatte i poveri. In cui eguaglianza (con tutte le declinazioni di significato, compresa la parte che riguarda l’accesso per tutti a conoscenze e verità) è contrapposta a libertà individuale. Sfrenata per i ricchi, una classe dirigente priva di etica e senza vergogna; ansiosa e senza prospettive di cambiamento per gli altri. Libertà intesa come privilegio di chi ha status socioeconomico elevato che, dopo anni di vuoto politico e culturale, è riuscita a imporre ai cittadini la battaglia dei penultimi contro gli ultimi.
Lo scrivo spesso: non sembri pessimismo, è realismo. E con lo stesso realismo, penso che solo l’utopia potrà salvarci. Perché solo azzerando il modo ottuso e mediatico che abbiamo per giudicare la realtà potremmo capire che non esiste democrazia nell’opacità del potere. Alcune cose di questo testo le ho già scritte e riproposte nel tempo. Perché sono un sovversivo nel cuore, lo sono sempre stato, questo vuol dire che non accetto la comodità del quieto vivere. E penso che sia possibile restituire dignità e umanità perduta al cittadino. Con la certezza che ogni potere, sebbene sproporzionatamente forte e organizzato come questo, non possa essere per sempre e che c’è ancora la possibilità di resistere e di abbatterlo. Con la necessità che anima da sempre il nostro genere umano: che alla violenza subentri la conoscenza, la pratica dei saperi non conformisti e la ricerca della verità attraverso l’esercizio del senso critico. Per far sì che le conoscenze possano germogliare in idee di rivoluzione, fuori dai format, con creatività e libertà senza catene. 

Per questo dedico questo testo a chi mai si è arreso, a chi continua a inventare sovversione, a chi continua a battersi per affermare i diritti di tutti a essere liberi, i diritti di tutti ad avere accesso alle conoscenze e a condividerle in modo reale.

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