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di Antonio Cipriani

C’è dolcezza nella parola sposa, in sardo “sa sposa” è un vezzeggiativo bellissimo. “Sa sposa” è la bimba per il padre, è la donna anziana che si abbraccia con tenerezza. È qualcosa che va oltre il matrimonio, è una ricchezza di affetti, un corredo d’amore che dura la vita.

Fossimo in guerra i pensieri sarebbero più leggeri. Mi fermo a guardare lontano dalla finestra del primo piano, Milano, quartiere Isola. E il lontano inciampa sempre nella casa a prua di nave che si erge oltre l’incrocio, col suo palpitare di tende verdi e sbiadite, signorette belle che battono sui tappeti e il mio amico cameriere in calzoncini da calcio e torso nudo. In cima il verde di un giardino, alberi e una vigna, perché il Bosco Verticale non ha inventato niente di nuovo. Noi volevamo quello orizzontale, e i bambini che correvano dietro a un pallone, gli anziani a prendere fresco tra gli alberi veri, mica cemento, finti prati, recinti e quelle piante impiccate disumane da ricchi.

Ma questa è un’altra storia; se sposto la tenda più in là l’orizzonte si infila in una piazza dove c’è il monumento alla resistenza. Brutto, al centro di una piazza e di un’aiuola rotonda che quest’anno seminerò di papaveri rossi, in modo che quando i vecchi partigiani porteranno le loro bandiere e i fiori, il fazzoletto rosso potrà essere contornato di un colore che possa vincere questo grigio che si espande nei cuori e nelle menti. Che cancella i ricordi, appesantisce e pensieri che per tenerli a galla devi combattere proprio. Mi fermo a guardare lo spicchio di aiuola, dalla finestra, e sorrido perché sarà festa. E sarà la mia scrittura senza neanche prendere in mano una matita, senza parole, solo un pugno di semi e la terra.

Cavalli distanti corrono tra la strada e la campagna. Cercano il crinale più distante dal mio punto di osservazione. Sono maremmani, barbari di fatica e storia.

Non so dire che cosa fa l’arte. Né se le parole oggi possano scalfire il potere o solamente fare coro, anche se in antitesi o lotta. Certo è che certi legami, di cura e amicizia, tracciano ipotesi fertili. Bello pensarle fertili e inaspettate, come i cavalli che in serata rientrano da qualche parte col loro scalpitìo in coppia; forse vanno verso Parco Nord, seguendo il naviglio che un tempo qui ci passava davvero. Quando c’erano ancora i papaveri a Milano. Prendo un pezzo di carta e scrivo: questi papaveri sono un dono.

Solo l’inaspettato rende felici, ma deve cozzare contro molto di aspettato, che esso disperde. I ricordi, materia invisibile, tendono a diventare irriducibili. E questo inciso chissà dove ce l’ho forte dentro, nella mia provincia di uomo, ispirato da Canetti e intinto nel rosso. Il tempo è come una vanga. Seminando dubbi, conservando semi. Vanga il terreno secco di quello che siamo e gira che ti rigira saltano fuori le parole giuste, quelle che guidano la vita o per lo meno le dita.

Fossimo in guerra i pensieri sarebbero più leggeri, mi ha scritto una volta il mio amico Luca. Che poi è la stessa cosa che ho pensato a Carnino, durante una cena di discussioni intellettuali su politica, bellezza, poesia e su come dispiegare nelle città in cui viviamo tutto questo. Al mio fianco prese la parola il guardiaparco scolpito in un tronco di quercia. Gli era stato chiesto come potesse portare la pistola alla cintura. E lui con semplicità aveva detto che era giusto, serviva per difendersi. Quell’uomo alto e grosso, armato e con le mani come due pale, era il figlio di tutti quei partigiani che in un momento della storia si erano trovati a scegliere da che parte stare. Se vivere o se sfidare la morte. Armi in pugno. Poche discussioni. Non so se con leggerezza. Non so se con poesia. Ma avevano sparato, avevano ucciso ed erano morti con in testa l’idea che quelle valli, i luoghi dove tutti noi viviamo dovessero essere pieni di una libertà semplice, operaia, contadina, vitale. Di donne e uomini semplici.

A noi quella semplicità è toccata in dono, ma l’abbiamo perduta per strada. O no, non perduta, è finita sotto una catasta di altre cose che tutte sembravano essenziali per vivere. Forse ci toccherà sottrarci da qualcosa che invisibile non vediamo. Cancellare e cancellare fino a far restare sul foglio una macchia incerta. E l’amicizia, l’incontro, la sfida, l’amore. Ecco, il nostro tempo di guerra ci impone di pensare pensieri più leggeri, dolorosi o urlati di gioia, meno artefatti. O per lo meno viverli con più semplicità. Come ripercorrere strade della terra e del pane. Della festa popolare, del rito, dell’attesa. Dell’edificare vite, idee, progetti, legami. E proteggere la fiamma, “perché se non la si protegge, prima che ce ne rendiamo conto, il vento la spegnerà, quel vento stesso che l’aveva accesa. E allora povero cuore sarà finita per te, impietrito di dolore” (Joseph Beuys). Proteggere la fiamma poetica e rivoluzionaria attraverso il rito, la propria vita come opera d’arte, azione politica e canto spudorato. Amore, gioia, meraviglia che diventa festa di popolo, brindisi e scintillio di sguardi felici. Sposa bella coi suoi fiori di campo e sposo sorridente con le sue mani grandi che delicate si muovono nella carezza.

Già, c’è dolcezza nella parola sposa. Il mio matrimonio con Valentina è stato celebrato dal Sacerdote, si chiama Antonio come me. Ed ha avuto una fabbrica e il cuore coraggioso dei suoi operai e della loro battaglia. C’era quel giorno un’altra Sacerdotessa, Isabella, che oggi sposa Isabella e Luca ai quali dedico queste parole, questo viaggio d’amore e cura. E si festeggerà con una festa in piazza all’antica, hanno detto. Mai come oggi sento come sacre le parole sul valore poetico e politico dei legami (per sempre), sa sposa bella Isabella.


Dedicato a Luca e Isabella che oggi si sono sposati a San Mauro Pascoli e che adesso stanno festeggiando in piazza, tra schiamazzi, poesia e balli, a Monteleone.

La sposa
La sposa

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