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di Pancrazio Anfuso

Vi ricordate quel bell’uomo con la barba e il cappellino che si aggirava tra le rovine di Pescara del Tronto? Lo intervistavano Tg e giornali, lo si vedeva immortalato mentre conversava col Papa, se ne conosceva per sommi capi la storia.

Quel tipo si chiama Enzo Rendina ed è un mio amico.

È stato arrestato ieri dai carabinieri perché si rifiutava di lasciare il territorio terremotato dove era stato costretto a spostarsi, a Borgo, nel comune di Arquata del Tronto. Diffidato dal sindaco, che gli aveva intimato di lasciare le zone a rischio, in vista dello sgombero dei rottami, Enzo si era opposto orgogliosamente, rifiutandosi di lasciare la sua terra.
È stato arrestato e processato per direttissima, dovendo rispondere, pare, anche di aver resistito ai carabinieri.
Il giudice ha convalidato il fermo e lo ha scarcerato, rinviando il procedimento al 20 marzo.

Enzo è un uomo straordinario. Ha mollato Roma che aveva più di vent’anni perché preferiva starsene lassù. Ma non era il tipo dell’eremita, di quello che se ne sta in quei paesi freddi e deserti per non stare in mezzo alla gente. No, lui ci credeva che si poteva stare lì e fare una vita migliore. Aveva accantonato il diploma in agraria, preso col fratello gemello, Franco, a Cittaducale, e si era trasferito a Pescara, nella bella casa dei genitori, che d’inverno tornavano a Roma. Gente meravigliosa, simpatica, ospitale.
Ho mangiato e dormito a casa loro molte volte, e spesso ho incontrato Enzo nelle sue sempre più rare discese nella capitale, a bordo della sua vecchia Citroen Ami 8.
Una parlantina sciolta, una magnifica immaginazione, tratto che lo accomuna allo splendido fratello, uguale a lui come una goccia d’acqua. Intelligenza viva, tutta orientata a scomporre la realtà in parti elementari da rimontare insieme per costruire un’ipotesi di vita che fosse davvero umana.

Ha resistito a tutti gli inverni freddi e solitari e si è divertito con gli amici di sempre ogni volta che arrivava l’estate, con le partite a biliardo al circolo, i funghi, l’attività di ambulante di vestiti che ha portato avanti per anni, prima di iniziare a collaborare con un’azienda per cui prelevava campioni di qualcosa, non so se d’acqua o di benzina. Gli anni ci sono scivolati addosso, io sono andato via da Roma e ho smesso di frequentare quei posti, ma ogni tanto lo incrociavo da qualche parte ed era sempre un gran divertimento, per me, stare a chiacchierare con lui. Aveva anche un occhio particolare, esercitato negli anni, che gli aveva fatto accumulare una grande collezione di sassi “strani”, raccolti in giro per la montagna, di cui andava molto fiero. Collezione esposta in giro per l’Italia e fotografata, che il terremoto si è preso insieme alla casa.

Quando c’è stata la prima scossa, ad agosto, ho temuto per la sua sorte e per quella dei suoi fratelli, poi sono riuscito ad avere da amici comuni notizie confortanti. Era solo e si è salvato saltando dalla finestra sulle macerie già crollate della sua casa, poi definitivamente rasa al suolo dalla grande scossa di ottobre. Sono morti alcuni dei suoi amici più cari e lui si è battuto col coraggio e con la tigna che gli conosco per tirare fuori dalle macerie i vivi e i morti del suo povero paese, spazzato via dalla faccia della terra.
Si è adattato a dormire all’aperto, poi in una tenda, lavandosi come poteva, “come un cinghiale”, ha detto in un’intervista. Per tanto tempo, fin quando la situazione non è precipitata costringendolo a lasciare la terra (altro non c’era) di Pescara del Tronto per spostarsi altrove, dove ha continuato, incurante del freddo e delle enormi difficoltà, a resistere.

Un gesto di cuore, una ribellione profonda al senso comune che ci martella da agosto sovrapponendo di continuo questioni burocratiche o di opportunità alle sofferenze indicibili delle persone, che sono l’unica cosa che conta. Non i danni materiali, solo i segni dell’anima, e i lutti, e la perdita di una comunità intera.

Enzo ha perso la casa, 40 anni di vita, amici e parenti, possibilità di lavorare. E lotta perché non muoia il suo sogno. Non pretendo comprensione dall’Autorità, che fa il suo. Ne voglio però raccontare la ribellione pura, lo spirito adamantino con cui si batte, senza aver niente da perdere, per chiedere che gli sia consentito di rimanere lì, nonostante non ci sia più niente da difendere se non il diritto ultimo, sacrosanto, inviolabile di mantenere vive le proprie radici e di ricostruire, a mani nude e con la forza della disperazione, il luogo in cui aveva scelto di vivere. Liberamente e per passione.

Benché le foto e le cronache lo raccontino provato e stralunato, conoscendone la forza e l’incrollabile testardaggine, so che fa fuoco e fiamme e a tutto pensa meno che a mollare. Non sono riuscito ad incontrarlo, dopo il terremoto, per le grandi difficoltà di circolazione che ho trovato quando mi sono recato ad Amatrice. Sto cercando di trovare un contatto telefonico con lui.

Gli voglio ricordare i tempi in cui ci si incontrava a Centocelle e tutti i sogni che il tempo si è portato via.
E stringergli la mano con ammirazione, perché ha dato a tutti una grande lezione di dignità.
Resisti, Enzo, io sono con te.

Enzo Rendina
Enzo Rendina

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