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di Maddalena Papacchioli
E’ una cosa come un monumento/ e il ricordo assieme agli anni è spento/ non ce n’è mai stati/solo in quel momento/ l’uomo in fondo è buono/meno il nazi infame!
(Cos’è un Lager, Francesco Guccini, 1981)

Ogni anno, in occasione della Giornata della Memoria, mi viene sempre in mente che ricordare,
in questo modo così solenne e istituzionale, l’infamia più orrenda compiuta dall’uomo sull’uomo nel secolo scorso, ha il sapore amaro di un atto collettivo di espiazione di una colpa atavica. Che è umana, troppo umana, per concepire fino in fondo che il Lager è un concetto così terribilmente replicabile da rendere riduttivo e addirittura ridicolo celebrare in un giorno comandato il dovere della memoria.
E mi fa orrore pensare che si possa relegare ad una semplice e triste rievocazione imposta o suggerita – comunque concordata – il fantasma di un peccato abnorme, come la Shoah, che tutti noi ci portiamo dentro.

In quell’opera mastodontica del pensiero filosofico occidentale più recente che è “Modernità e Olocausto”, scriveva Zygmunt Bauman che “il processo di sterilizzazione dell’immagine dell’Olocausto è sedimentata nella coscienza popolare”.
Ecco, la coscienza popolare, mi pare di osservare che si possa, così, risvegliare a comando. Come se fosse una cellula dormiente capace di riattivarsi più o meno arbitrariamente, pronta ad esplodere in preda ad un delirio di commemorazioni addolorate e commosse, nello spazio breve ma intenso di ventiquattro ore.

Contestualizzare storicamente e geograficamente il concetto di Lager, e ricondurlo a quell’operazione infernale che fu la “soluzione finale” dei nazisti di settanta anni fa, significa recintarne il senso dentro un perimetro troppo stretto per comprenderne la portata mostruosa.
Oggi, il passo d’oca degli aguzzini nazisti marcia sull’intera Europa, ed oltre, sul mondo intero. E calza, sì, stivali militari, ma anche eleganti scarpe di cuoio abbinate ad abiti presidenziali e non necessariamente uniformi da parata.
Il Lager, oggi, non è l’immagine di due binari nella neve che portano dritti a un cancello dov’è scritto, con beffarda malvagità: “Il lavoro rende liberi”.
Il Lager, oggi, è un sistema di democratico consenso internazionale alla costruzione di muri e di fili spinati, alla definizione normativa dei confini, alla limitazione della libera circolazione degli esseri umani, all’istituzione di un artificio legislativo come il diritto d’asilo, che sancisce un’accoglienza almeno quanto determina un’esclusione.
Il Lager è una porta in faccia sbattuta contro uomini, donne e bambini che non sanno di essere numeri eccedenti rispetto a quote stabilite a tavolino da un’ Europa pronta ad aiutarli ma con tanti se e tanti ma.
Ed inoltre, il Lager è un progetto che stiamo già illecitamente ideando ogni volta che ci scappa di usare, in modo spontaneo, mentre parliamo, espressioni ghettizzanti come “noi” e “loro”.

Il guaio più serio, purtroppo, è che non ci sarà nessuna Norimberga a depurare l’umanità futura da questa sottile e quotidiana banalità del male che professiamo ed agiamo inconsapevoli, ma non per ciò incolpevoli, quando ci limitiamo a ricordare, in un qualsiasi 27 gennaio, che c’è stato un tempo in cui un uomo cattivo che non c’è più costruì dei lager che ormai sono dei musei.
Oggi, il mondo è tutto un lager a cielo aperto.
Tutto il mondo, a cielo aperto. Ecco cos’è, oggi, un lager.

A molti può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati… ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il lager.
Primo Levi

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