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di Pancrazio Anfuso

Nessuno parla bene del 2016. Eppure è stato un anno come un altro, ancora non è finito ma ha riservato la solita razione di eventi nefasti: sciagure, guerre, lutti, preoccupazioni. Era pure bisestile, quindi ha avuto un giorno in più per fare danni e non si è fatto pregare.

Un anno di cadaveri eccellenti: Fidel Castro, David Bowie, Prince, Leonard Cohen, Franco Citti, Ettore Scola, Umberto Eco, Nana Vasconcelos, Johan Cruijff, Paolo Poli, Merle Haggard, Gianroberto Casaleggio, Ettore Bernabei, Glenn Frey, Chris Amon, Mose Allison, Fazil Iskander, Boutros Ghali, Alan Vega, Paul Kantner, Valentino Zeichen, Michael Cimino, Bud Spencer, Vittorio Merloni, Muhammad Alì, Giorgio Albertazzi, Mel Lazarus, Marco Pannella, Pinuccio Sciola, Tommaso Labranca, Gene Wilder, Vera Caslavska, Ermanno Rea, Carlo Azeglio Ciampi, Gian Luigi Rondi, Padre Amorth, Shimon Peres, Andrzej Wajda, Dario Fo, Tina Anselmi, Umberto Veronesi, Greg Lake, Miruts Yifter, George Michael, Carrie Fisher.

Lo so, è una lista interminabile. Piena di musicisti. Quasi tutti anziani, il che ci ricorda che le rockstar sono tutte in attività dal secolo scorso e che lo star system non ha prodotto miti che le sostituiscano. Mi viene in mente che la cosa sia in qualche modo collegata con l’avvento di internet, ma forse questo c’entra solo in parte. La prima richiesta che faccio al 2017, perciò, è che nascano dei nuovi Bowie e dei nuovi Cohen, che siano all’altezza e anche migliori dei predecessori e che si ricominci a fare grande musica, di quella che segna le generazioni.

Chiedo anche di fare in modo che si cominci a dialogare tra poveri e che si capisca che chi attraversa il mare lo fa perché sospinto dalla guerra, dalla paura e dalla fame e che deve esistere un modo per aiutarsi, senza odio e senza sospetto. Ci sono cose che possiamo imparare e cose che possiamo insegnare. Soprattutto dobbiamo impegnarci per la pace, che è l’unica cosa che può invertire il flusso delle migrazioni. E dobbiamo farlo noi.

Non è la sola cosa che dobbiamo fare, nell’anno che viene. Dobbiamo anche veicolare il contagio, diffondere la bellezza, condividere il sapere. Tutti. Non basta imparare, non basta crescere. Bisogna impegnarsi e condividere con gli altri, crescere e far crescere. Spero che il 2017 ci tenga svegli e lucidi, ci bombardi di stimoli, ci costringa a far circolare il pensiero.

All’anno che viene chiedo una politica diversa. Che nasca un’utopia in cui credere. L’anno che finisce ci ha portato Trump, la Brexit, i Populismi all’assalto, l’indecorosa fine del progetto d’egemonia di Renzi. Quello che sta accadendo nasce dalla logica prevalente del meno peggio, figlia del senso comune, che ha prodotto una serie di adattamenti verso il basso che ci hanno portato ad accontentarci del fattibile quando dovevamo puntare all’impossibile. Nascano nuovi sogni, si torni a pensare all’uomo, invece che ad amministrare l’esistente, che si consuma e decade.

Chiedo al 2017 che la sensibilità delle persone faccia un salto di qualità. E che sia un soprassalto d’amore: si popolino le piazze e si chieda un altro mondo, più giusto e più equo. Ci si faccia parte attiva per trovare soluzione alle grandi crisi internazionali. The people have the power, cantava Patti Smith. Oggi può sembrare un pensiero ingenuo e datato, invece è da qui che si deve partire. E marciare. Verso Aleppo e verso ogni luogo dell’ingiustizia e del dolore.

La gente ha il potere di scegliere i propri rappresentanti, ma anche il potere di cambiare perché si creino i presupposti veri per il cambiamento. I politici sono la nostra estensione dentro le istituzioni. Il loro opportunismo, le loro bugie, il loro pensiero di basso livello sono lo specchio della nostra società. Cambiarla significa rivedere i nostri comportamenti, imparare a partecipare. Domandare qualcosa di diverso da un concetto vuoto e dimesso di decoro. Creare una piazza dove ci sia dialogo e partire da lì per ripulire il mondo. Non demandare. Pensare e fare del pensiero un’azione. Leggere per se stessi, per gli altri. Leggere in pubblico, ad alta voce. Imparare a recitare, a cantare, a suonare, a ballare, a dipingere. Scrivere. Curare il proprio corpo. Fare sport per il gusto di farlo, senza l’assillo del competere. Mangiare bene, il che non significa scimmiottare i talent show per cuochi che ci propina la televisione. Già che ci sono chiedo al 2017 di liberarcene, di quelli e delle gare per polli da batteria che cantano Stairway to Heaven e poi salutano la mamma. Bisogna avere più coraggio, il coraggio di cambiare, quello che chiedeva Rosaria Costa ai mafiosi e a tutti noi. Il coraggio di andare dove non c’è nessuno e di inventare cose nuove. Il coraggio di spostare i confini un po’ più in là.

Perché se non cambiamo il mondo ci cambierà, con la brutalità della deriva che hanno preso gli eventi, con la scomparsa della solidarietà e la svalutazione della dignità umana, col disprezzo per le idee e per la cultura, col declino della poesia e del teatro. C’è bisogno di una scossa che ci rimetta in moto, altrimenti ci trasformeremo in una massa docile e assopita, nutrita dai facili consumi e dai suoni attutiti che nascondono lo stridore violento delle ingiustizie che consumano il mondo. Già lo siamo. E non c’è più tempo.

Quando la fatalità ci colpisce ci sembra il colmo della sorte avversa, ci interroghiamo sulla sfortuna e sul disegno incomprensibile del destino. Il terremoto che schianta il sedimento di secoli di convivenza e azzera le prospettive di una comunità. Al 2017 chiedo che riparta, come la vita nelle zone colpite dal sisma, anche la nostra vita. Che prenda una direzione e la segua, che punti verso il confronto e costruisca una rivoluzione. Partendo da valori antichi che non possono essere stati seppelliti dalla noia e dalla melassa della comunicazione: il bisogno di verità, la domanda di opportunità, la ricerca della felicità.

Nessuno ce li può negare. Al 2017 chiediamo speranza. E la otterremo solo se sapremo costruircela da soli.

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