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di Giulia Geraci

 

L’altro giorno mi trovavo a Firenze, dove non andavo da lungo tempo, e devo dire che a fronte di anni passati all’università in cui questa culla della civiltà, della cultura, dell’arte e della lingua è spesso protagonista, mi faceva anche un certo effetto starci. L’aria che si respirava ti portava a immaginare che Dante, Leonardo e Michelangelo avessero davvero percorso quelle strade e passeggiando avessero gettato le basi della nostra cultura.

Presa da questo spirito mi avvio verso gli Uffizi e passata la fila, i controlli, il guardaroba e lo scalone d’onore arrivo all’ingresso dove scopro che è possibile fare fotografie alle opere, l’importante è che si resti entro i limiti di sicurezza e non si usi il flash.

La faccenda mi piace, perché, a differenza della maggior parte dei musei in Europa, offre se non altro una buona alternativa rispetto a spendere 80 centesimi per una cartolina allo shop museale. E mi piace perché giusto oggi, per onorare in solitaria la memoria di Umberto Eco, venuto a mancare poche ore prima, ho deciso di fotografare le opere più famose nel loro dettaglio minimo che, a mio parere, le identifica a colpo d’occhio. Una sorta di gioco “Indovina il particolare” da “Settimana Enigmistica”, insomma, ma più figo.

Così passata la sala del Duecento, del Trecento, la Sala dei Figli di Niobe e quella di Michelangelo, arrivo alla Sala del Botticelli, che ospita sulla sinistra la Primavera e sulla destra La nascita di Venere. Da rimanere folgorati, da non sapere dove guardare prima: due meraviglie della storia, dell’arte e della natura concentrate in meno di 10 mq che hanno una quantità di particolari infinita da contemplare centimetro per centimetro. Decido infatti di goderne visivamente senza filtri per tutto il perimetro un paio di volte prima di iniziare il mio progetto fotografico.

Mercurio, le Grazie, Primavera, poi Flora e Zefiro e poi, sulla parete di fronte, di nuovo Zefiro e il suo soffio, la lumeggiatura delle foglie e sulla conchiglia adagiata su increspature dell’acqua mi blocco. O meglio, vengo bloccata. Da una signora, che è in procinto di farsi fotografare insieme alla Venere e si lamenta con l’amica del fatto che io sia lì davanti a guardare il quadro e stia proprio coprendo il piede di Venere.

Sarò io la rompiscatole della situazione o sarà lei non particolarmente furba, visto che non credo di essere l’unica bionda che è nata e vive in Italia, fatto sta che, una volta che mi chiede in inglese romanesco di scostarmi, scopro che la cosa sul momento non mi infastidisce né mi altera, ma mi fa scattare una riflessione, che si prolunga per tutta la durata del mio giro.

Non mi chiedo perché la gente abbia la mania delle foto alle opere, che è argomento ormai all’ordine del giorno e io per prima ero lì pronta a farne diverse, ma mi pongo una domanda che, se ci si sofferma, non trova una risposta immediata: perché la gente ha bisogno di farsi le foto insieme alle opere d’arte?

E da lì giù a farmene molte altre nel tentativo di darmi una spiegazione, mentre mi accorgo che molti intorno a me usano farsi foto e, addirittura, selfie con le opere, massima espressione di questa pratica che proprio non riesco a spiegarmi: sarà per essere protagonisti del momento insieme all’opera? Sarà perché sono famose e tutti le conoscono, manco fossero vip d’altri tempi? Sarà per poter dimostrare di averle realmente viste, al di là dei libri di arte, dei calendari e delle cartoline casomai qualcuno dubitasse della loro parola?

Alla fine del mio giro di pensieri e di musei mi risolvo in un’affermazione più ampia: abbiamo bisogno di far vedere agli altri quello che noi vediamo perché se semplicemente raccontiamo di esserci stati e basta questa esperienza non ha lo stesso valore.

Concetto che se può risultare banale e addirittura abusato al giorno d’oggi, quando si parla di opere d’arte inizia a stridere non poco: se le opere hanno per loro stessa natura lo scopo di essere viste e osservate e di produrre di per sé, in questo modo, esperienza, anche senza doverne fare una critica alla Umberto Eco, che senso ha mostrare di averle viste in modo così esplicito?

Anche a mente fredda la risposta che mi do è un “no”. Mostrarsi insieme alla Nascita di Venere non equivale a raccontare di esserci stati o far vedere la semplice foto dell’opera fatta da noi, se vogliamo. È, infatti, molto più semplice, immediato e soprattutto autorizza a non dover necessariamente esprimere quello che un’opera trasmette.

Un selfie con l’opera, infatti, non invita colui che guarda la foto a chiedere “E com’è dal vivo?” come potrebbe invece fare davanti all’affermazione “Sai, ho visto la Nascita di Venere del Botticelli”. È un’ulteriore scorciatoia, esattamente come quelle che tutti usiamo fotografandoci insieme a luoghi, cose, persone e poi, nella maggioranza dei casi, postandole sui social.

“Ha scoperto l’acqua calda”, penseranno alcuni; “Guarda questa quanto si sente superiore”, penseranno altri. “Mai affermato il contrario” penso io, solo mi riesce difficile non constatare che farlo con le opere d’arte è di gran lunga più grottesco e arriva alla mancanza di rispetto, perché tradisce quello che è la natura dell’opera d’arte stessa: quella di trasferire l’emozione di un’idea e di un’epoca in chi la guarda, in modo più o meno profondo o consapevole.

In altre parole, le opere parlano in continuazione, e dar loro le spalle per fare un selfie o una foto insieme non serve a portarle per sempre con noi; vuol dire semplicemente ignorarle.

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