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di Barbara Monaco

Non sembra possibile siano davvero passati diciassette anni da quel pomeriggio grigio di marzo quando, aprendo la porta del piccolo bar carrarese di via Verdi incontrai Jeroni Bosch* . Lo vidi seduto di spalle e non ebbi dubbi: l’appuntamento era con quel ragazzo intento a schizzare qualcosa sulla tovaglia di carta gialla stesa sul tavolo. Io ero giovane, vent’anni appena, iscritta al primo anno della facoltà di Filosofia, con la velleità di saper raccontare le vite degli altri, ero eccitata all’idea di poter ascoltare quella di un artista di pochi anni più grande di me, ma già così pervaso da un’aura di romantica solitudine: “Ci vuole coraggio per sedersi da soli in un bar e cominciare a scrivere o a dipingere”, mi diceva sempre un amico pittore e, in effetti, è vero.
È un po’ come spogliarsi e mettersi a nudo: è la trasparenza esistenzialista. E il tratto duro, mancino, di Jeroni Bosch non è cambiato, salvo farsi sinuoso nelle forme materiche di una scultura che predilige i corpi femminili, tanto più atti ad esprimere psicologie complesse.
Quella di Bosch resta una cultura preminentemente figurativa, fa parte di quegli artisti che non potrebbero concepire l’astratto senza aver condotto prima un attento studio del corpo umano e delle sue torsioni. L’artista ha sempre avuto più confidenza con i metalli, il forgiare e il piegare è più nelle sue corde che il levare alla pietra; questo ha fatto con il ferro, cercando forme astratte, minimali e asciutte, essenziali ma ancora parlanti, che si tratti di sua figlia che gioca nel parco o di una finestra fatta di poche linee aperta sul vuoto. La sensualità dei lunghi colli delle sue donne poste di profilo come in attesa di qualcosa che non c’è ma che avrà da essere. Come ogni artista Bosch non ama promuovere se stesso e sceglie poche parole per descrivere il proprio lavoro che, appunto, dovrebbe saper esprimersi mostrandosi: “Difendo la libertà che l’opera ha di esprimersi da sola. Lavoro come prima, con le mie mani, utilizzando però una quantità di competenze e tecniche acquisite con il passare degli anni che a, prescindere, influenzano l’espressione artistica. La creazione non è altro che un dialogo tra l’uomo e la materia; abusare della tecnica o, ugualmente, non averne sufficiente conoscenza, non aiuta questo rapporto simbiotico. Sento la necessità di vivere il presente, consapevole dell’ambiente e dello spazio, soggetti entrambi a diverse realtà: per comprendere il linguaggio della materia è sempre necessario passare attraverso il dialogo. Voglio lasciar essere e cessare di essere”.
 


Sì, perché è quanto mai difficile inserire l’opera di Jeroni Bosch all’interno di una corrente artistica definita. Significherebbe imprigionarla, impedirle di aprirsi a quel “linguaggio plastico pre-verbale” che nasce da una libera associazione cognitiva. E con linguaggio pre-verbale, si badi, non si fa riferimento all’art brute o naȉf, bensì al più ampio concetto di “opera aperta” come proposta di un campo di possibilità interpretative, come configurazione di stimoli dotati di una sostanziale indeterminatezza, così che il fruitore sia indotto a una serie di letture sempre variabili. E osservando l’opera di Bosch non si può non pensare proprio a quel concetto di opera aperta coniato da Umberto Eco, e alle sue parole quando, descrivendo l’anelito dell’arte contemporanea, non più paga di rappresentare semplicemente la realtà, sottolinea come l’artista produca oggi una forma in sé conchiusa nel desiderio che venga compresa e fruita così come egli l’ha prodotta e come, contemporaneamente, desideri non di meno che nell’atto di reazione alla trama degli stimoli, ogni fruitore porti una concreta situazione esistenziale, una sensibilità particolarmente condizionata, una determinata cultura, le proprie propensioni personali, in modo che la comprensione della forma originaria avvenga secondo una determinata prospettiva individuale. In tal senso dunque, un’opera d’arte, forma compiuta e chiusa nella sua perfezione di organismo perfettamente calibrato, è altresì aperta, nella possibilità di essere interpretata in mille modi diversi senza che la sua irriproducibile singolarità ne risulti alterata. Ogni fruizione sarebbe così una interpretazione ed una esecuzione a un tempo, poiché in ogni fruizione l’opera rivive in una prospettiva originale.
Anche Roland Barthes parla di questa disponibilità del creatore come di una virtù; essa sarebbe l’essere stesso della creazione portato al suo vertice. “Scrivere”, afferma Barthes e noi, con Eco, diremmo far sorgere ogni messaggio artistico , “vuol dire far vacillare il senso del mondo, disporvi una interrogazione indiretta alla quale lo scrittore (creatore) per un’ultima indeterminazione si astiene dal rispondere. La risposta è data da ciascuno di noi che vi apporta la sua storia, il suo linguaggio, la sua libertà; ma poiché storia, linguaggio e libertà cambiano all’infinito, la risposta del mondo allo scrittore (creatore) è infinita”. In arte, così come accade per ogni atto di creazione, è la necessità a dover sorgere prepotentemente: “Questa è la mia realtà, quella celata negli ultimi dieci anni di lavoro”, sottolinea Bosch, “una concettualizzazione che mi lascia la libertà di esprimermi liberamente al di là della linea sterile e di qualunque tecnica, materiale, supporto o disciplina che vengono collegate, comunque, mediante una connessione che va oltre il significato comunemente atteso”. È la plasticità la prima caratteristica dell’opera di Bosch, una plasticità “sporca”, perché rispetta, apre un dialogo serrato col materiale: è questo il motivo per cui il ferro, il bronzo, l’alluminio vivranno di saldature in grado di lasciarli respirare ed aprirsi all’universo del creatore che, appunto, si fa capace di entrare in simbiosi con quello del fruitore, chiamato ad interpretare, interagire con l’opera stessa al punto da farsene, in qualche modo, egli stesso esecutore.
 

Jeroni Bosch
Jeroni Bosch

Jeroni Bosch
Jeroni Bosch
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Jeroni Bosch
Jeroni Bosch
Jeroni Bosch
Jeroni Bosch
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Jeroni Bosch

*Jeroni Bosch è nato nell’isola di Mallorca, nella cittadina di Manacor (Mallorca) nel 1975. Formatosi presso la “Escuela de Artes y Oficios” di Palma, ha ampliato le sue competenze all’ “Accademia di Belle Arti” di Carrara e all’ “École des Beaux Arts” di Parigi. Il suo lavoro è stato diffusamente esposto in gallerie e collezioni private di tutto il mondo.

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