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di Minelli Matteo

 

Ci sono numerosi motivi per cui dovremmo interessarci di pedagogia. Il primo e più importante è che siamo tutti figli dell’educazione che riceviamo. Che si accetti o si rifiuti, parzialmente o in toto, la formazione impartita, essa influenzerà in maniera determinante la nostra intera esistenza. I modelli educativi ovviamente ci condizionano e attraverso noi condizionano l’intera società in cui operiamo. Ne consegue che la pedagogia è più di una materia di studio scolastica; la pedagogia è un’istituzione fondante in tutte le collettività. Questa centralità, ahimè, è ben nota ai regimi, totalitari e non, di ieri e di oggi. La gioventù hitleriana, i pionieri sovietici, i balilla e via dicendo, cos’altro sono stati se non tentativi, in taluni casi purtroppo assai ben riusciti, di irreggimentare, fidelizzare, assoggettare i giovani ai principi del partito, del governo, della nazione, del comandante in capo di turno?

E se pensiamo che questa sia una storia triste ma ormai morta e sepolta ci sbagliamo di grosso. In un’epoca nella quale genitori e figli passano sempre meno tempo insieme sono le istituzioni dello stato e quelle private insieme ai mezzi di comunicazione ad allevare i “nostri” bambini. E lo fanno con modelli educativi che finiscono per tirare su uomini e donne simili, troppo simili, a loro. Le autorità politiche, culturali, morali vogliono il monopolio dell’educazione dei nostri figli: lo vogliono perché i bambini gli fanno paura. In fondo basterebbe che una sola generazione di giovani sotto ventiquattro anni (nel mondo un miliardo e ottocento milioni di individui) vivesse una condizione formativa radicalmente diversa da quella attuale per sperare di ottenere degli importanti mutamenti su ogni piano della nostra esistenza.

Certo è difficile trovare nelle società attuali esempi di un’educazione differente. Ci sono state, e in taluni casi perdurano, esperienze formative straordinarie e in profonda controtendenza rispetto ai dogmi pedagogici a lungo imperanti. Come non ricordare a questo proposito la scuola di Barbiana di Don Milani, il Closilieu di Arno Stern, Summerhill di Alexander Neill. Esperienze di educazione libertaria, non repressiva e inclusiva, che già per il fatto stesso di esistere meritano infinito rispetto e totale ammirazione. Esperienze che andrebbero estese e rafforzate, ma che sono vivamente e ripetutamente osteggiate da ogni autorità pubblica. Autorità che invece tende a replicare il medesimo modello formativo in tutte le società civilizzate. Un modello fatto di competizione esasperata, incomprensibile disciplina e confinamento del bambino in spazi a lui assegnati da condividere solo con suoi coetanei e i suoi controllori.

Ed è proprio questa concezione dell’infanzia come periodo della vita scandito da tappe temporali specifiche e caratterizzato dall’incompletezza dell’individuo-fanciullo a determinare la differenza centrale tra la pedagogia civilizzata e quella tribale. Nella tribù il bambino, fin dal momento della nascita, viene considerato un soggetto completo facente parte a tutti gli effetti della vita della comunità. Il bambino aka o hazda, efe o aché, a differenza di un italiano o un cinese non viene mai separato dal nucleo familiare e dal contesto comunitario in cui i suoi affini vivono. Lo stesso contatto corporeo con la madre è considerato un aspetto fondamentale della crescita dei figli. Nel corso della giornata i piccoli sono trasportati con fasciature posteriori o anteriori ma sempre con il viso rivolto nella stessa direzione di chi li trasporta. Nel corso della notte il bambino non si stacca mai dalla madre, giacendo nella stessa sua stuoia e mantenendo costantemente il contatto epidermico. E queste pratiche potrebbero essere alla base delle cause di sviluppo precoce di neurotrasmettitori che caratterizza ad esempio i bambini kung rispetto a quelli americani.  È ovvio che tanto il trasporto con le fasce, anche se sembra tornare di moda, quanto il dormire con i propri figli sono pratiche viste con orrore dai genitori moderni e fortemente sconsigliate dai pediatri di tutto il globo, che paventano il non corretto sviluppo motorio del bambino e il pericolo di surriscaldamento o peggio di schiacciamento durante il sonno. Sarà che le popolazioni tribali non possiedono materassi e dormono a terra, sarà che i bambini sono fasciati con delicatezza e liberati quando iniziano a gattonare, sarà che le madri e i padri delle società tradizionali sono più attenti ma non sembrano esserci casi con valore statistico di bambini morti o invalidati dalle suddette pratiche. Pratiche peraltro abbondantemente usate anche nelle realtà contadine di molte società civilizzate fino alla metà del novecento.

Un altro punto di notevole divergenza nell’approccio al bambino tra la nostra pedagogia e quella tribale riguarda la soddisfazione dei suoi bisogni, primari e non. Oggi si sta facendo strada un pensiero innovativo su questo tema ma fino a qualche anno fa il mainstream dominante recitava che: affinché i neonati sviluppino autocontrollo e fiducia in se stessi è importante impartire loro ritmi regolari di allattamento, pulizia, sonno e risveglio. Inoltre, una volta verificata la salute del piccolo, non bisogna curarsi troppo dei suoi pianti. Le pene per i genitori eccessivamente apprensivi e dolci infatti sarebbero figli viziati e dall’ugola perennemente in azione. L’approccio tribale, invece, si caratterizza per una tempestiva risposta al pianto del bambino (pare che addirittura tra i Kung il tempo di reazione si aggiri entro tre secondi dal primo vagito); se un piccolo inizia a lagnarsi l’adulto più vicino tenta subito di consolarlo, non cambiando affatto atteggiamento nel caso si tratti di semplici capricci. Il risultato è che questi bambini passano pochissimo tempo a piangere e gli attacchi durano in media pochi attimi. Di recente molti studi dimostrano che questo orientamento interventista riduce notevolmente le ansie e le paure dei piccoli incidendo sul loro stato d’animo e migliorandone la qualità della vita.

Questo approccio si estende anche alla soddisfazione di altri bisogni. I bambini delle tribù ricevono tutto ciò che la comunità può offrire senza fatica e senza competere con gli altri per ottenerlo.

Allo stesso tempo raramente i bambini sono oggetto di punizioni e praticamente mai di castighi corporali. Nelle comunità di cacciatori e raccoglitori la violenza sui piccoli è un tabù esteso anche agli ospiti della comunità come raccontano le esperienze di diversi antropologi fortemente biasimati e talvolta addirittura bloccati nell’atto di sculacciare i propri figli. Viceversa accade spesso che piccoli irrequieti siano liberi di infastidire e “molestare” i genitori senza che venga preso alcun provvedimento.

Grande infine è l’autonomia di cui godono i figli della tribù. Autonomia che noi considereremmo pericolosa ma che fa parte di quella cultura della libertà di cui queste popolazioni sono tanto gelose. Spesso viene permesso ai piccoli di bighellonare già da piccolissimi nel villaggio, di esplorare nuovi spazi e di viverli appieno con gli altri membri del gruppo. Questo sistema educativo porta nella maggior parte dei casi alla maturazione di individui fortemente indipendenti, autosufficienti, capaci di imparare ciò che la comunità si aspetta dal loro operato e abbastanza saggi da capire che è loro interesse ascoltare i consigli dei propri affini.

Infine l’insegnamento e la trasmissione di cultura nelle comunità tribali avviene quotidianamente attraverso il divertimento educativo e l’osservazione degli adulti. Non ci sono maestri, non ci sono scuole, non ci sono tempi e spazi dedicati all’apprendimento contrapposti a tempi e spazi dedicati allo svago o al riposo. E soprattutto è bandita la competizione. In tutti i giochi, sia educativi sia esclusivi dell’età infantile, non esistono gare che prevedono vincitori e vinti, non ci sono classifiche e premi. Si incoraggia sempre la condivisione e la cooperazione e si inibisce l’attaccamento alle cose materiali, trasmettendo così quei valori fondamentali alla sopravvivenza e all’equilibrio del gruppo.

Risulta chiaro come nelle comunità tribali la crescita fisica e spirituale e l’apprendimento siano processi inscindibili dalla socialità. Per i più piccoli la vita è un flusso ininterrotto di esperienze condivise con gli altri, che vanno dai momenti di contatto fisico con la madre ai racconti simbolici degli anziani passando per gli svaghi con bambini di ogni età e i giochi educativi con tutti i familiari. Il risultato è la crescita rapida e spontanea della socievolezza, della sicurezza, delle capacità relazionali e lo sviluppo precoce di molte abilità fondamentali nella vita futura.

I figli della tribù crescono liberi e felici, possiamo dire lo stesso dei “nostri”?

7 commenti su “L’ educazione tribale: come crescere liberi e felici i propri figli

  1. Bell’articolo. Sintetico ma molto descrittivo. Interessante. Dovremmo un po’ tutti prendere atto dei contenuti e laddove possibile metterli in atto.

    1. Grazie mille per il tuo commento Giulia, lo spirito dell’articolo è esattamente quello che hai individuato tu. Cercare di offrire degli spunti su cui riflettere, e far conoscere modi diversi di concepire l’infanzia.

  2. Grazie per questo bell’articolo.
    Sovvengono alla mia mente alcuni libri :
    “Infanzia indiana”, di Ohiyesa
    “Capo Sole” di Simmons -Talayesva.
    Era proprio un bel modo di educare.
    Io non ho figli, ma nipoti.
    Talvolta gioco con loro, e mi rendo conto che non è naturale.
    I bambini dovrebbero essere immersi fra gli altri bambini e giocare con loro, non con gli adulti.
    Inoltre, la televisione veicola loro messaggi di violenza e competizione, terribili, che poi usano giocando con me, e arrivano pugni e pedate.
    Gli animali e la natura sono presentati ai bambini, nei cartoni animati, in modo molto distorto.
    Credo che la mancanza di contatto con la natura, un contatto rispettoso, faccia in modo che crescano degli esseri umani che saranno, in futuro, incapaci di comprendere la natura, a meno che non si sforzino personalmente a riavvicinarsi a Madre Terra.
    La vita “reale”, non è fra i grattacieli, ma fra gli alberi, i torrenti, i laghi, i deserti, sulle sponde del mare e degli oceani.
    In piccole società autosufficienti, tribali.

  3. Matteo avresti un riferimento da darmi riguardo alla “destinazione” dei bambini ad un ruolo nella tribù da parte del saggio o dell’anziano o dello sciamano? Avevo letto o sentito da qualche parte che a seconda delle loro caratteristiche i bambini venivano già individuati come “guerrieri” o “cacciatori” o … insomma mi interessa l’aspetto che riguarda il collocamento di ciascuno nel suo ruolo naturale, cosa che oggi non avviene più e spesso oltre a non conoscersi si viene spinti in ruoli che non ci appartengono. Grazie.

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