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LA BUONA EDUCAZIONE DEGLI OPPRESSI

Il titolo è la premessa di un omonimo saggio, che non lascia spazio a sottintesi, firmato da Wolf Bukowski, scrittore e giornalista che nella sua recente bibliografia ha affrontato le conseguenze – declinate in ambiti diversi – del neoliberismo competitivo. Il saggio ripercorre alcune tappe della più recente storia politica, ponendo l’accento sulle “armi” utilizzate da alcuni schieramenti, come il decoro e la sicurezza, categorie diventate centrali nella lotta contro poveri, migranti, movimenti di protesta e marginalità sociali. Ne parliamo con l’Onorevole Nicola Fratoianni, Leader, Deputato dell’Alleanza Verdi Sinistra e Segretario Nazionale di Sinistra Italiana, tra i fondatori di Sinistra Ecologia e Libertà, la cui carriera politica si snoda a partire dalla militanza nel Partito di Rifondazione Comunista di cui è stato dirigente nazionale.

Cancellare ogni riferimento di classe, ribaltando il posizionamento delle categorie più emarginate, che da vittime diventano colpevoli di non aver meritato la ricchezza. Una retorica, quella della colpa, le cui radici continuano a trovare terreno fertile, mentre i dati in Italia ci parlano di circa due milioni di famiglie che si trovano sotto la soglia di povertà e il 13% degli under 30 non sfugge a questo stigma, nonostante lavori. Davanti ad incontrovertibili evidenze, com’è possibile che questa narrativa tossica continui a sopravvivere?

A pensare che se sei povero è colpa tua sono innanzi tutto i poveri. Se fossero solo i ricchi ad impugnare questa bandiera ideologica brandendola come un’arma contro i poveri avrebbero perso. Il problema è che sono i poveri a convincersi che la colpa sia la loro e che per questa ragione accettano più o meno passivamente scelte che sono in tutta evidenza contro i loro interessi, aggravando la loro condizione materiale e sociale. D’altronde questa narrativa tossica non è il frutto di un’invenzione recente, non è il tratto di una campagna elettorale, ma il risultato di una lunga semina con cui la destra nazionalista, ma organizzata a livello internazionale (aspetto curioso e rilevante) ha costruito il suo discorso pubblico attorno all’idea di nazione, di micro patria, di identità di sangue e di recupero delle origini. E l’ha fatto come risposta alle devastazioni della globalizzazione neo-liberista e agli effetti che quel processo aveva prodotto sulla percezione di larghissimi strati della popolazione, in particolare dei più poveri.

Una narrazione tossica che è quella che porta con sé la campagna contro i migranti e, per l’appunto, contro i poveri anziché contro la povertà.

E’ infatti colpevole chi cerca una seconda possibilità attraversando il mare, si pensi alla tragica dichiarazione del ministro Piantedosi: “L’unica cosa che va detta ed affermata è: i migranti non devono partire”. Secondo il ministro del governo Meloni, dunque, “la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo le vite dei propri figli”. Questa dinamica di dis-governo di de-responsabilizzazione, a cui abbiamo tristemente assistito a Cutro, per citare uno degli accadimenti più recenti, trova consenso attraverso un attento utilizzo delle parole, capaci di deformare la realtà, trasformando una strage in tragedia, e via dicendo..

E’ un linguaggio molto netto. Non si sono fatti, né si fanno, alcun problema ad usare le parole più violente, a coltivare le categorie che – in un’altra fase – nel discorso pubblico sarebbero state quantomeno imbarazzanti. Se pensi alla “campagna” contro i buonisti colpisce proprio rispetto all’uso delle parole. Se io ti dico che sei buonista, ti sto dicendo che tu sei buona, in realtà, se essere buoni diventa oggetto di stigma io sto affermando che il valore a cui io mi riferisco è il cattivismo.

Sicuramente sul tema immigrazione la narrativa tossica ha raggiunto il suo apice, cominciamo dal binomio di parole emergenza immigrazione?

Si, la più grande truffa che si possa costruire semanticamente. L’emergenza è una condizione limitata nel tempo, puntuale, imprevedibile e soprattutto straordinaria, che per questa ragione richiede risposte altrettanto rapide, puntuali ed emergenziali. L’immigrazione, in realtà, è un gigantesco fenomeno strutturale che da sempre attraversa il mondo, ma che in Italia è al centro delle attenzioni da almeno 35 anni – pensiamo al 1990 quando a Bari arrivò dall’Albania una gigantesca nave, la Vlora, carica di corpi, attaccati ovunque, lì fu il primo momento in cui abbiamo fatto i conti con questo fenomeno strutturale. Ma una condizione strutturale trattata come un’emergenza è una condizione a cui non si dà una risposta. Intorno a questo cortocircuito le destre, ma colpevolmente anche il centro sinistra, hanno dato risposte del tutto inefficaci e alimentato la narrazione tossica di cui stiamo parlando. Per le destre in particolare non siamo di fronte ad un errore, ma davanti ad una scelta: si investe sull’emergenza, perché questo consente di alimentare altre costruzioni immaginarie: dall’invasione al più classico “ci rubano il lavoro”, all’aiutiamoli a casa loro. E qui c’è il trionfo della falsa coscienza e dell’ipocrisia di chi fa finta di non vedere che la “loro casa” diventa spesso un lager come quelli in cui vengono rinchiusi i migranti in Libia, o un cumulo di macerie devastato da guerre combattute anche con le armi che vendiamo noi, o semplicemente sono diventate inabitabili per la crisi climatica che deriva anche dalle nostre politiche energetiche.

A proposito del tema abitazione, che dovrebbe essere considerato un diritto fondamentale, Wolf Bukowski tra i vari esempi citati ricorda un provvedimento del 2019 – quando 5 comuni del parmense introdussero la patente a punti per le case popolari – se gli assegnatari o i loro famigliari si mostravano indisciplinati (in modo anche trascurabile) i punti venivano scalati e di penalità in penalità si arrivava alla revoca – un regolamento di questo tipo è una macchina che mistifica e nello stesso tempo produce odio..

Soprattutto nei fatti concreti produce un’evidente dissociazione: il massimo della tutela contro i grandi reati fiscali, che hanno un impatto sulla società molto rilevante ed il massimo dispositivo punitivo e di controllo su tutte le aree marginali e sui giovani come categoria pericolosa per definizione – vedi il decreto rave.

Se torniamo indietro di qualche decennio nel ‘94, il libro ricorda una Milano dove i comitati cittadini chiedono al pool di giudici di mani pulite di far pulizia nelle strade cittadine. Per arrivare agli anni zero in cui si apre quella che si può definire una schizofrenia legislativa, in cui da una parte c’è l’esigenza di difendere imputati accusati di reati tipici degli imprenditori, dall’altra una repressione dei piccoli reati – vedi la Fini-Giovanardi che elimina la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti e la Bossi-Fini sull’immigrazione che porterà poi nel secondo mandato di Berlusconi al cosiddetto “reato di clandestinità”

Ed è questo il terreno su cui la destra si è mossa producendo paradossalmente un doppio risultato: da un lato quello di mobilitare fasce popolari diseredate contro i loro interessi, e questo è uno dei motivi del perché le destre più conservatrici abbiano guadagnato consenso spesso e volentieri in aree sociali a cui – a rigor di logica – si dovrebbe rivolgere con più efficacia la sinistra rispetto alle proposte che mette in cambio. Lo stesso paradosso vale per esempio per la lunghissima campagna sul tema delle tasse, su cui la destra ha costruito un’egemonia profondissima. L’idea che le tasse bisogna abbassarle – perché sono troppo alte – è passata ovunque, e credono a questo racconto anche coloro che tasse ne pagano pochissime perché non hanno niente e non ricevono da un giusto sistema fiscale nessuna redistribuzione. La narrazione funziona con questo doppio obiettivo: da un lato mobilitare con sé il popolo, in realtà contro i suoi stessi interessi, dall’altro costruire – anche qui direttamente nei settori popolari – un’idea distorta che alimenta competizione, e quindi solitudine e frantumazione dei legami sociali. Un’impresa politica-elettorale di carattere speculativo.

Un’impresa speculativa nella quale la destra ha sicuramente rivendicato alcuni dei suoi valori, ma l’opposizione democratica non è stata in grado di dare una risposta netta, limitandosi spesso ad una retorica meramente accusatoria.

C’è una tendenza a dire, spesso da chi sta in opposizione che questo sia un modo per distogliere l’attenzione dai problemi veri, io non credo sia così, o meglio credo che ci sia anche questa componente, ma che in realtà questo lavoro sia un lavoro molto di sostanza, perché serve a consolidare un elemento egemonico e di consenso.
Se mettiamo in fila una serie di scelte politiche, anche di quell’area definita di centro-sinistra, ci troviamo di fronte a scelte che hanno prodotto un allargamento della diseguaglianza e della precarietà, mascherata sotto il termine ben meno inquietante di flessibilità. Una potente retorica sempre fondata sul rovesciamento, prendiamo un altro esempio: la privatizzazione del sistema sanitario pubblico è sempre stata accompagnata da una parola che rovescia completamente la percezione, che è la parola eccellenza – se discuti della sanità della Lombardia la parola più frequente che viene utilizzata è eccellenza, ma quell’eccellenza è la formula di un privilegio organizzato e strutturato che sicuramente esiste in alcuni punti apicali, ma che è stata pagata non solo con l’esclusione di fasce importanti dall’accesso alle cure, ma con lo smantellamento della sanità sul territorio, della medicina preventiva e che dunque ha trasformato la salute nell’esercizio di un privilegio per chi se lo può permettere.

Di fronte all’immagine di un’Italia chiusa e punitiva, pensiamo al decreto contro le ONG, alla prima citata strage di Cutro o al decreto rave, come si può rispondere?

Servono politiche di accoglienza che riscrivano completamente il nostro meccanismo fondato sull’emergenza, per esempio sarebbe l’ora di istituire il permesso di soggiorno per ricerca di lavoro che consentirebbe di fuoriuscire dall’irregolarità a migliaia di persone e sarebbe tra l’altro una manna dal cielo per il nostro sistema d’impresa. Al posto di un sistema vetusto come il decreto flussi che prevede che un imprenditore debba assumere qualcuno senza conoscerlo. Di fronte a questa condizione che è strutturale, occorre una posizione radicale. La radicalità della crisi climatica e sociale, richiede quantomeno proposte che siano all’altezza di questi problemi. A volte anche proposte che abbiano un impatto simbolico. Abbiamo per esempio appena presentato una legge che abolisce il divieto di utilizzo dei jet privati, naturalmente non quelli che servono per trasportare gli organi, ma penso quelli che si mobilitano per un aperitivo da Roma a Milano, che in poche ora immettono nell’atmosfera tanta co2 quanto una persona in un anno intero. Lì si presenta in modo evidentissimo quanto sia stretta la connessione tra crisi climatica e diseguaglianza.

Se la percezione conta più dei dati reali, generare sentimenti di paura è il meccanismo più semplice ed antico, a cui fa seguito un’interessata rassicurazione autoritaria. Il saggio, riletto alla luce della situazione più attuale risulta un po’ doloroso, nella sua messa in evidenza di una storia politica che da un lato si ripete, ma che dall’altra parte genera una risposta cittadina sempre più apatica e compromessa.

La politica deve sempre avere a che fare con la percezione di una condizione, che non deve essere per forza la tua, ma con la capacità di costruire un’empatia con la condizione di ingiustizia che misuri intorno a te. Per me la politica è una dimensione collettiva, quando non è così perde d’interesse e di efficacia. Un’esperienza che mi segnò profondamente fu sicuramente quella delle giornate di mobilitazione in occasione del G8 di Genova nel 2001. Credo che abbia segnato una generazione intera. Guardo con un po’ di nostalgia alla radicalità del conflitto sociale, come ossigeno per la politica e per la potenza costruttrice che ne deriva.

Un commento su “La buona educazione degli oppressi – intervista a Nicola Fratoianni

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