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di Francesco Merlino

 

Si chiude la porta e si getta la chiave.

Serena ha poco più di vent’anni, non c’è nulla nel suo volto che provi a nasconderlo. Sembra aver accettato o essersi più semplicemente rassegnata al fatto che, con ogni probabilità, dovrà continuare la propria vita, sempre che il tempo finora a sua disposizione sia stato sufficiente per chiamarla vita, sentendo parlare del mondo senza poterlo vedere; forse intravederlo tra gli spazi stretti che la grata ricama. Serena è davanti a me eppure di me non si accorge, ha lo sguardo a volte in basso a volte diritto ma non diretto da alcuna parte, assente, come se i vetri tondi delle lenti che le fluttuano davanti non siano in realtà trasparenti e attirino o devino la sua attenzione.

La distanza da cui la guardo è tale per cui i ferri intrecciati delle sbarre si assottigliano quasi al punto da scomparire, così che la sua immagine mi si presenta quasi integra, almeno esteriormente, perché non c’è nulla di interiore a Serena che riesca a trapelare. Non un’emozione, non un pensiero che io riesca ad immaginare.

Forse si pente ogni giorno di quello che ha fatto. “Ho sbagliato”. Parla con Dio, perché le è rimasto Dio e poco più. Serena, come tutti, aveva un solo colpo in canna.

Continuo a cercare di intercettarle gli occhi, che pur non sfuggendomi affatto, sempre immobili, sembrano essere comunque irraggiungibili.

Tento di stabilire un contatto visivo ed insieme a me la signora che mi sta avanti, che la mia immaginazione ha dipinto come sua madre. Deve essere così perché la continua a guardare quasi smarrita. Sembra che lei veda la grata nitida e soffocante e che le stesse sbarre che per me si assottigliavano tanto da scomparire, appaiano a lei tanto spesse da farle quasi dimenticare lo spazio che c’è tra l’una e l’altra.

La madre di Serena viene qui ogni giorno e non dice mai una parola, sempre intenta a distinguere la voce di sua figlia, che si combina e si mescola con il coro vociante delle sue compagne. Ma lei è la madre e sa riconoscere la voce di sua figlia o sa ben illudersene. Qualcuno ne dubiterebbe ma io sono certo che tornerà qui ogni giorno della sua vita e che il tempo non le toglierà mai la voglia di svegliarsi alle sei del mattino, che faccia troppo freddo o troppo caldo, anche se solo per un’illusione.  Ho visto la faccia della mamma di Serena, è la faccia di chi non capisce ma non si rassegna. E come si può capire qualcosa di irraggiungibile? Qualcosa che sta sempre dietro una grata? Si può attendere che passi sufficientemente vicino, allungare la mano tra gli spazi quadrati ed afferrarla. Ma a quel punto solo i più forti si dimenticano del ferro che rimane in mezzo, terzo incomodo. In che modo si trascorre una vita separati dal mondo?

La mamma di Serena a volte pensa che un muro sarebbe stato meglio di una grata. Il muro quanto meno nasconde oltre a separare e, si sa, quando gli occhi non vedono il cuore non fa male. Mentre la grata non nasconde nulla agli occhi ma tutto al cuore. Se solo Serena avesse valutato, se solo avesse scelto in modo diverso.

La continuo a fissare, al di là delle sbarre. Apre la bocca, tra poco parla, poi cambia idea. Forse non ha più voglia o più motivazioni necessarie per vivere.

E ciò che più fa male è che a Serena basterebbe decidere per uscire.

Il prete smette di parlare, Serena alza lo sguardo e mi sorride.

“Amen.”

Ci sono cose che si nascondono e cose che vengono nascoste.

Perugia alle sette di mattina per un ventenne è una cosa che viene nascosta dal sonno e dalla sbornia del giorno prima, la messa viene nascosta dalla razionalità, dall’incompatibilità con un apparente e fatiscente comunismo o dall’esigenza di mantenere un’immagine. Il monastero di Sant’Agnese in corso Garibaldi si nasconde dietro secoli di costruzioni e l’anonimato dei portoni tutti uguali.

Le suore clarisse come Serena decidono di star rinchiuse dimostrando che a volte anche le buone vanno in galera. Si chiama clausura.

Serena non si nasconde ma si separa. Il perché non so dirlo. Non so spiegare a chi ne venga un vantaggio o se ne venga un vantaggio. Non mi so sbilanciare al punto da dire che sia una scelta da egoista, forse è solo bisogno, e attenzione non ho detto voglia, di stare da soli.

Spesso le scelte più inspiegabili sono quelle che hanno più dignità di esser capite.

E dunque rimaniamo così, io al di qua e lei al di là della grata. Io a chiedermi perché chiudersi a chiave per una vita, lei a ricordarmi col suo sguardo fuggente ed ascetico che ci vuole qualcosa in più per scoprirlo. Divisi da pochi incolmabili centimetri di ferro. Sta ad ognuno di noi decidere al quale di là stia la libertà.

Un commento su “La clausura di Serena: anche le buone vanno in galera

  1. L’autore vuole sorprenderci: da un iniziale difficile ed incomprensibile approccio con la scelta di Serena si passa ad un calmo profondo e sincero chiarimento sul senso di un vivere che puo’ anche assurgere a paradigma,

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