CONDIVIDI

 
 
di Pancrazio Anfuso

“E’ difficile cambiare tutto, tutto d’un colpo.
I principi e la vita non coincidono”

(Buenaventura Durruti)

Questo metalmeccanico aveva combattuto per la rivoluzione fin dalla prima giovinezza. Era salito sulle barricate, aveva assaltato banche, lanciato bombe, rapito giudici. Era stato condannato a morte tre volte: in Spagna, Cile e Argentina. Aveva peregrinato per innumeri prigioni ed era stato espulso da otto paesi.
(Il’Ja Erenburg).

Buenaventura Durruti è una figura leggendaria. Leader dei sindacati anarchici, è stato uno dei protagonisti principali della guerra civile spagnola, alla guida delle truppe irregolari che combatterono per la Repubblica e contro i fascisti di Francisco Franco, sostenuti da Hitler e Mussolini.

Su di lui si è raccontato tutto e il contrario di tutto: alcuni dicono che fosse un uomo retto e fondamentalmente contrario alla violenza, alla quale ricorreva per necessità. Altri lo descrivono, negli anni ’20, vestito completamente di nero e con due pistole in pugno, alla guida del gruppo degli “Erranti”, a vendicare gli operai fatti bastonare durante una stagione di lotte sindacali dal proprietario di un’azienda messicana, uccidendo a revolverate padroni e capi squadra alla loro causa asserviti.
Fama non usurpata, vista la chilometrica serie di imprese che gli si attribuiscono e che gli fruttano espulsioni e condanne a morte, ma anche l’infinita popolarità che merita, agli occhi dei diseredati, chi agisce in nome della loro causa e non per il proprio tornaconto personale. Durruti fu una sorta di Robin Hood moderno, che faceva rapine per finanziare la rivoluzione e perì nell’intento di realizzarla, caparbio e irriducibile.
La sua morte è avvenuta il 20 novembre 1936, in seguito alle ferite da arma da fuoco riportate il giorno prima, a Madrid, durante una battaglia tra anarchici e fascisti.
Le circostanze in cui fu colpito, però, non furono mai chiarite: alla più logica, che lo vuole bersaglio dalle fucilate dei fascisti, si contrappongono altre tesi, che lo vogliono ucciso da fuoco “amico”.
Per mano di combattenti anarchici sbandati che aveva rimproverato severamente, impedendone la diserzione e spingendoli verso il fronte infuocato, oppure di comunisti ansiosi di liberarsi del suo anarchico slancio anti statale, che rappresentava un freno alle mire egemoni di Stalin, oppure compagni vicini a lui che volevano liberarsi della sua presenza ingombrante, per questioni interne tutte da chiarire. Infine, la tesi dell’incidente, secondo la quale Durruti s’inciampò nello scendere di corsa dalla macchina, facendo fuoco contro sé stesso con il mitra che aveva in mano, tesi accreditata da chi ha visto le dimensioni ragguardevoli del buco fatto dal proiettile sulla sua camicia e negata con forza dalle fonti ufficiali, onde evitare il probabile scoramento dei combattenti anarchici.
Un giallo in piena regola, con una folla d’indiziati, ciascuno dei quali ha allontanato da sé il sospetto, nonostante ci siano testimonianze e indizi a carico di tutti. A parte i fascisti, interessati ad appuntarsi sul petto questa medaglia.

Come sia andata non si sa, e alla fine poco importa. Con lui morì un pezzo di sogno collettivo, e la cronaca del suo funerale, che riprendo integralmente dal racconto di H. E. Kaminsky ripreso da Hans Magnus Enzesberger, rappresenta bene l’atmosfera folle e scombinata che si respirava al suo funerale, in un giorno di pioggia, a Barcellona, il 20 novembre 1936. Un funerale anarchico, se mai se n’è visto uno.

A notte tarda, il cadavere arrivò a Barcellona. Aveva piovuto tutto il giorno e le vetture che lo scortavano erano coperte di fango. La bandiera rossa e nera, distesa sul feretro, era sporca. Nella “casa degli anarchici”, che, fino alla rivoluzione, era stata la sede della Camera di industria e commercio di Barcellona, si era lavorato già dalla sera per trasformare il vestibolo in camera ardente. Come per miracolo, tutto fu presto approntato.

La decorazione era semplice, senza alcuna raffinatezza né pompa. I muri coperti di drappi rossi e neri, un baldacchino anch’esso rosso e nero, qualche candelabro, fiori e corone, null’altro. Sulle due porte laterali, attraverso cui sarebbe sfilata la folla, erano posti, secondo il costume spagnolo, grandi cartelli con le scritte “entrata permessa a Durruti” e “uscita permessa a Durruti”. I miliziani, con il fucile al braccio, circondarono il catafalco. Poi alcuni uomini della Colonna Durruti che erano venuti da Madrid con la bara la portarono alla “casa”.

Nessuno aveva pensato ad aprire i grandi battenti del portone e quegli uomini dovettero stringersi per attraversare una angusta porta. C’era tanta gente che riuscirono a stento a farsi strada. Dai loggiati del vestibolo, rimasto senza decorazioni, molti uomini guardavano come se si fosse trattato di uno spettacolo. Si fumava. Alcuni si levavano il berretto, altri lo tenevano. Tutti gridavano. Gli amici abbracciavano qualche miliziano venuto dal fronte. Le sentinelle respingevano quelli che aspettavano, e anche questo non avveniva senza fracasso.

L’uomo che aveva organizzato la cerimonia diede gli ordini. Qualcuno inciampò in una corona. Uno dei portatori del feretro accese con cura la pipa. Intanto il coperchio della bara fu tolto e Durruti apparve sotto vetro, coricato sulla seta bianca, con una sciarpa bianca avvolta intorno alla testa. Pareva un arabo.
Era una scena tragica e grottesca insieme. Pareva un’incisione di Goya. (…)

Durruti era l’amico dei suoi amici. Era diventato l’idolo di tutto il popolo. Era stato sinceramente amato e tutti coloro che erano presenti in quel momento supremo lo rimpiangevano affettuosamente. Tuttavia la sola persona che piangesse, oltre alla sua compagna, una francese, era una vecchia donna di servizio, che già serviva in quella casa al tempo in cui i padroni entravano e uscivano a piacimento e che con ogni probabilità non l’aveva mai incontrato. Gli altri sentivano tutti la sua morte come una perdita terribile, irreparabile, ma i loro sentimenti erano privi di ogni solennità. Tacere, non fumare, togliersi il berretto, questo sarebbe stato per loro stravagante quanto farsi il segno della croce o spargere l’acqua benedetta.

Migliaia e migliaia di persone sfilarono davanti a Durruti per tutta la notte. Aspettavano in lunghe file sotto la pioggia. Il loro amico e il loro capo era morto.
(…) Il giorno dopo, la mattina, ebbero luogo i funerali. (…)
Si calcolò che un abitante di Barcellona su quattro o cinque marciasse dietro la bara, senza contare le masse che fiancheggiavano le strade, che erano alle finestre, sui tetti e perfino sugli alberi delle Ramblas.

I partiti e i sindacati avevano convocato tutti i loro membri, e le bandiere di tutte le organizzazioni antifasciste sventolavano accanto a quella degli anarchici sopra quel mare umano. Era grandioso, sublime e bizzarro. Poiché tutta quella folla non era diretta, non c’era né ordine né organizzazione: nulla funzionava, il caos era indescrivibile.

La sepoltura era fissata per le dieci. Già un’ora prima era impossibile raggiungere la sede del comitato regionale anarchico. Non si era pensato a tener libera la strada per il corteo. Da tutte le parti le squadre delle officine arrivarono, si incrociarono, si mescolarono e si sbarrarono a vicenda la strada. In mezzo, il distaccamento di cavalleria e le truppe motorizzate che dovevano precedere la bara erano bloccati. Dovunque le vetture con le corone si erano fermate, non potendo né avanzare né indietreggiare. (…)

Alle dieci e mezzo, Durruti, coperto di una bandiera rossa e nera, lasciò la “casa degli anarchici” sulle spalle dei miliziani della sua colonna. Le masse alzarono il pugno per l’ultimo saluto. Si intonò il canto anarchico Figli del Popolo. Fu un momento commovente. Ma, per inavvertenza, si erano fatte venire due orchestre; una suonò in sordina, l’altra fortissimo, e non riuscirono a mantenere la stessa cadenza.

Le motociclette facevano fracasso, le automobili suonavano il clacson, i capi della milizia davano ordini a colpi di fischietto, e i portatori della bara non potevano avanzare. Era impossibile formare il corteo. Le orchestre suonarono ancora una volta, ancora parecchie volte lo stesso canto; lo suonarono senza occuparsi l’una dell’altra, e i suoni si mescolavano in una musica senza melodia. I pugni si levavano sempre. Infine la musica e i saluti cessarono.

Ormai non si udiva più che il rumore della folla, in mezzo alla quale Durruti riposava sulle spalle dei suoi compagni. Almeno mezz’ora trascorse prima che si potesse liberare la via e che il corteo potesse muoversi. Parecchie ore passarono prima che esso raggiungesse la Plaza de Cataluña, distante appena qualche centinaio di metri. I cavalleggeri cercavano di farsi strada, ognuno per conto suo. I musicisti che erano sperduti cercavano di raggrupparsi. Le vetture che erano state fermate in senso inverso procedevano a marcia indietro. Le vetture con le corone passavano per vie traverse per prendere posto in un punto qualunque del corteo, e tutti gridavano e urlavano.

No, non erano funerali regali, erano funerali popolari. Nulla in essi era ordinato, tutto avveniva spontaneamente, in modo improvvisato. Erano funerali anarchici, ecco la loro maestà!

(Per l’inestricabile caos, la pioggia e il sopraggiungere delle tenebre, la sepoltura di Durruti fu rinviata al giorno dopo).

Un commento su “La maestà del funerale anarchico di Durruti

  1. Dalla cara amica Ilaria Drago una citazione importante che arricchisce il racconto di Durruti della preziosa e autorevolissima testimonianza di Simone Weil, che racconta quanto fossero terribili quei tempi:

    “La prima vittima di ogni guerra è la verità!”
    La guerra è un agire sull’immaginazione,
    appiattisce la visione delle cose,
    ti fa perdere coscienza dei dati reali di una circostanza
    e persino di capire che vi è solo un problema da risolvere
    non una fatalità da subire!
    L’illusione si traveste allora di sacralità,
    prende la forma del prestigio, dell’amore di patria,
    della lotta contro l’umiliazione, dell’onore da difendere.
    Un’atmosfera tale cancella anche lo scopo stesso della lotta.
    Lenta, un’ebbrezza animale si sparge allora nell’aria.
    Nel maneggiare un’arma ne trai un’illusione di elevazione, la falsa esaltazione legata al potere, all’assassinio, al possesso sessuale.
    Soffocata ogni eventuale repulsione,
    per timore di mancare di virilità,
    è difficile resistere a una simile ebbrezza.
    Io l’ho vista quell’ebbrezza negli occhi dei nemici, l’ho vista negli occhi degli amici.
    L’ho vista quell’ebbrezza, in Spagna, coi partigiani, Colonna Durruti: brindava a vino e sangue dei preti trucidati, si divertiva alle spalle di un ragazzino di quindici anni.
    Se non m’avesse salvato dalla follia la pietà dell’olio bollente che per incidente mi sono versata sulle gambe, mi sarei fatta uccidere al posto suo, per non averlo come peso sulla coscienza… che ora bussa, strappa il sonno alle mie notti!…..”

Lascia un commento

La tua mail non verrà pubblicata, * campi obbligatori