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di Luca Mikolajczak

Mi è sempre piaciuto fare lunghe passeggiate, camminare per il solo gusto di lasciarmi trasportare gambe e cuore in cerca di un improvvisato belvedere di tetti sgarrupati e prorompenti tramonti fluo.

Qualche volta però le passeggiate si fanno in due e acquistano allora un significato diverso, diventano una marcia di condivisione in cui le parole scorrono inavvertitamente, incuranti dei calli e del vento, gelido anche ad aprile.

Nasce così, da una confessione al barolo, un’amicizia che capisci sarà per sempre, perché partorita senza premeditazione come un figlio concepito dopo i calici di Capodanno, che non potrai respingere.

Un’ingenuità ancora fanciullesca emerge tra le righe di un discorso che non c’è bisogno di pronunciare, perché gli sguardi dicono fin troppo, quando ci sono abissi comuni.

Si va dunque a braccetto alla scoperta del mondo e di se stessi per arrivare alla sconvolgente certezza che non esistono certezze quando si tratta di sentimenti.

Ma un’inveterata saggezza popolare impone: rimpianti mai.

Meglio allora vivere i rapporti, e farlo fino in fondo, anche a costo di essere respinti da un muro di silenzio che non è un rifiuto, ma per te, anima che barcolli sui trampoli delle emozioni, neppure un porto sicuro in cui approdare.

A volte ritornano, infingardi cavalieri dimezzati, e quando lo fanno tu non sei mai preparato: chiami senza remore nel cuore della notte il tuo compagno di arrovellamenti, tanto sai che è sveglio, e, anche se non lo fosse, non te lo direbbe mai, perché il supporto ventiquattro ore su ventiquattro è una delle clausole tacite della nostra amicizia simbiotica.

Le lezioni rappresentano l’ultima spiaggia di vita regolare nel mare di irrequietezza cosmica in cui stentiamo a nuotare. Sempre che ci vogliamo andare a lezione. Questa però non la voglio saltare, il professore legge e commenta Montale.

Ci vai e te ne penti, mostrarti in lacrime davanti a una frotta di compagni -colleghi non lo usiamo, quanto è freddo, lasciamolo a quelli di medicina- annoiati e apparentemente impermeabili al rivo strozzato che gorgoglia.

Malati di vitalismo bulimico, trascorriamo giorno e notte indaffarati in continui esorcismi di poesia e voluttà.

Finché arriva, brutale come un fulmine sul lago di Bolsena, il tempo delle partenze e dei saluti.

Il treno non è ancora partito, ma già stiamo chattando.

Ci dedichiamo ognuno ai nostri nuovi tormenti e bagordi, più sfrenati delle matricole inamidate di quest’anno, alla faccia di chi, a neanche un lustro di età, ti dice: eh, ormai non siamo più così giovani…

“Fanculo tutto, fanculo tutti” mi urli dall’altra parte della cornetta; sai che non ti giudico e, al tuo sfogo disarmato, mi limito a sogghignare, rivedendo nei tuoi affanni i miei. Sincronizzati nel karma, come sempre.

Mentre mi trastullo tra uno spritz e l’altro in compagnia di altre bande di irrequieti cronici, mi telefoni: “Sono a Perugia, volevo tornare, non c’è un motivo. Ci facciamo una passeggiata?”.

Beh lo sai, mi è sempre piaciuto fare lunghe passeggiate…

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