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di Pancrazio Anfuso

Ho versato più inchiostro che lacrime, per il terremoto del Centro Italia, perché sono stato fortunato. Non ero presente il giorno della scossa, i miei familiari stanno tutti bene, la casa di famiglia non è crollata anche se ha subito danni ingenti, ci sono alcuni miei conoscenti tra le vittime ma il dramma mi è passato vicino senza colpirmi con violenza. Mi ha mosso al ricordo e alla commozione, ma non mi ha annichilito.

Per questo ho pensato, a un certo punto, che non era giusto continuare a scriverne come se ci stessi dentro fino al collo. Sono orgoglioso delle mie origini amatriciane ma questo non basta a farmi sentire vittima delle circostanze. È la prova, conoscendo i miei paesani, della traccia lasciata dalle mie origini locali: gli amatriciani non si piangono addosso, sono gente fiera e coraggiosa, di teutonica compostezza. Il sangue è longobardo e lo si vede a guardarli in faccia. La testa, dura quanto quella degli abruzzesi. Che sono come fratelli.

La situazione, però, è di nuovo precipitata, negli ultimi giorni. Prima una nevicata-record, di quelle che non si vedevano da decenni: mio nonno raccontava di essere uscito con la pala dalla finestra del primo piano, qualche volta, facendo la via per dare da mangiare alle bestie tra due muri di neve più alti di lui. Loro sono abituati alla neve. Ci sono cresciuti. Ma stando in casa, col camino acceso e le coperte abruzzesi coloratissime sul letto, non negli alloggi di fortuna in cui abitano, in molti, adesso.

Poi è tornata la Bestia. Tre scosse potenti nel giro di qualche minuto, epicentro che guarda verso l’Abruzzo e quindi a due passi da casa mia. Non so se sia ancora in piedi, visto che in paese non ci abita nessuno e che la strada è sicuramente chiusa per la neve. Dubito che possa aver ancora resistito, viste le condizioni in cui l’avevano ridotta le botte precedenti.

Ho letto le dichiarazioni di Pirozzi e le polemiche che si rincorrono sui social, ascoltato i notiziari, ricevuto le foto degli amici che mostravano temperature polari e paesaggi lapponi, appreso dei danni spaventosi provocati dal maltempo e dei tragici eventi di Rigopiano, dove spero ci sia ancora la possibilità di cavare dalla neve qualche persona ancora in vita. Ho visto, letto, seguito. E mi sono arrabbiato per le critiche indiscriminate rivolte a chi ha prestato soccorso.

Sono quasi 5 mesi che una quantità di cittadini presta soccorso, volontario o meno, presso le zone colpite dal terremoto e dalle nevicate eccezionali di questi giorni.
Sono persone che si sono impegnate, con o senza mezzi e addestramento specifico, spesso a rischio della propria vita. Hanno scavato, strappato persone e animali alla morte, ricomposto salme, montato accampamenti, prestato cure mediche e psicologiche.

Hanno giocato con i bambini, pianto con le vedove, ricordato le vittime con i superstiti, si sono fatte carico del minuzioso lavoro di catalogazione dei danni, hanno vissuto fianco a fianco con la popolazione colpita, avendo una casa calda e comoda altrove, una famiglia, degli affetti.

Chi ha avuto modo di parlare con qualcuno che ha prestato soccorso si è trovato di fronte a persone entusiaste di aver potuto salvare delle vite, portare conforto, impegnarsi insieme a chi rimane per far sopravvivere una comunità che esiste da millenni.

Chi si trova in balia delle intemperie e delle scosse di terremoto ha pienamente ragione di lamentarsi dei ritardi, delle storture burocratiche e di ogni impedimento che li ha portati dove sono, oggi, persi nella neve e senza una speranza. Ma chi sta lì sa anche benissimo quale sforzo sia stato fatto da chi ha prestato soccorso. Impagabile. Encomiabile. Straordinario. E distingue, e non spara nel mucchio.

Il fuoco delle polemiche lo alimentano le strumentalizzazioni politiche, lo scaricabarile delle responsabilità, il racconto più o meno fazioso delle promesse non mantenute, l’invettiva di chi ritiene ci voglia niente a mettere in moto una macchina complessa in grado di gestire i colpi inferti dai disastri in serie.

Sembra ci sia un destino che si accanisce sulle popolazioni dei monti della Laga, dei Sibillini e delle zone circostanti. Come se avessero fatto qualcosa di male.
Sono vittime innocenti di circostanze particolarmente avverse, insieme agli amministratori locali, e a poco vale la ricerca di responsabilità nei meandri delle piccolissime macchine organizzative dei Comuni locali. Riserve indiane che hanno espresso i loro amministratori scegliendo il meglio possibile tra i loro sparuti cittadini.

Quello che emerge dalla lettura di questi fatti, ancora purtroppo in divenire, è un sistema/Paese disorganizzato che porta la responsabilità di ogni vittima e di ogni euro di danno.
In questa zona dal 1979 a oggi ci sono stati 4 eventi sismici distruttivi.

Nel 1979, nel 1997, nel 2009 e nel 2016 si sono contati i morti e si sono riparati i danni. Senza prendere provvedimenti seri per evitare che simili sciagure lascino il segno. Paesi che passano per essere meno sviluppati del nostro, come il Cile, sopportano scosse di magnitudo ben superiore (anche 8) senza seppellire vittime che non siano morte di paura. I danni che subiamo noi sono simili a quelli prodotti da eventi che si abbattono sulle baracche di qualche città remota, sita in paesi alle prese con ben altri problemi cha la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta, la corruzione dei politici e il diffuso degrado del pensiero e dell’agire collettivo. Ben altri. Hai detto un prospero…

Abbiamo la Protezione Civile più esperta e allenata dell’universo, ahinoi, ma si tratta di una forza che scende in campo a disastro avvenuto.

Prima, c’è stato tutto il lavorio di quelli che cercano favori per aggirare le norme, per risparmiare, per fare i furbi. E di quelli che gli consentono di farlo, in cambio di una mazzetta o di un favore. È la norma, da noi. Ed è quello che fa la differenza tra lo stimato cittadino che se vuole una cosa sa come prendersela e lo sfigato che paga le tasse e rispetta le leggi, non avendo la faccia tosta di provare a violarle, senza santi da pregare per aggiustare le cose.

Così si costruiscono alberghi che saltano per aria come castelli di carte, si rattoppano case che vengono sbriciolate alla prima scossa fuori misura e via a sgranare il rosario del pianto e dello stridor di denti.

Io non me la sento di non distinguere.
Non me la sento di rovesciare il tavolino, di buttarmi per terra a battere i pugni e a inveire contro questo e quello.
Le responsabilità sono precise e riguardano le persone che hanno ricoperto e ricoprono i ruoli istituzionali incaricati di gestire certe situazioni. Non è possibile che la soluzione di un gravissimo problema che riguarda la salute pubblica, come l’elevata sismicità di queste zone soggette a continui violenti terremoti, sia stata lasciata alla buona volontà dei cittadini.

Dobbiamo arrivare a prevenire le emergenze di questo tipo e possiamo farlo solo rendendo obbligatoria la messa in sicurezza di tutte le costruzioni che si trovano in queste zone a rischio. Anche se sono estese quasi quanto l’intero territorio nazionale. Ci hanno spiegato che questo è compatibile con la preservazione della bellezza dei luoghi e dei manufatti che ci si trovano. Quelli che sono rimasti in piedi… perché c’è un fatto CERTO: l’edificio che non è sicuro crollerà. E poi lo si dovrà ricostruire, pagando un tributo di sangue all’incuria.

Ai 309 morti del terremoto dell’Aquila se ne sono aggiunti quest’anno quasi altrettanti. Il territorio era stato già seriamente colpito da quell’evento e da quelli precedenti: perché non si è fatto niente per prevenire questa tragedia annunciata?

Perché non si capisce che il danno più grande, oltre alle vite spezzate e agli incalcolabili danni alle cose, è l’aver messo a grave rischio la sopravvivenza di un’intera comunità che vive da secoli nel territorio? Perché è chiaro che se le zone più colpite, letteralmente rase al suolo, sono quelle che già da decenni si stavano spopolando per la mancanza di prospettive di lavoro, prometterne la ricostruzione così com’erano è solo un vagheggiamento lontanissimo dal realizzarsi.
Una bugia pietosa.
Un azzardo utilitaristico.
Una bella figura gratis il cui costo si scarica sulle spalle di chi sta soffrendo, avendo perduto anche la speranza.

Interroghiamoci sul cinismo dei social, quindi, ma anche sull’inettitudine di una politica che sa piangere e battere pacche sulle spalle quando ci sono le telecamere, ma trascura di mettere a punto i meccanismi burocratici che devono garantire la tutela delle popolazioni colpite e la prevenzione da mettere in campo per evitare che certe situazioni si ripetano.

Perché sappiamo bene che si ripeteranno: ce lo raccontano il Belice, l’Irpinia, il Friuli, l’Emilia, il Molise, Tuscania, la Marsica. E sappiamo bene che l’estremizzazione delle condizioni climatiche ci rifilerà altre Rigopiano, quando meno ce lo aspettiamo. E altre Sarno, e altre alluvioni, e altri disastri.

Cosa stiamo facendo per prevenirli?
A questo devono rispondere i politici.
Ma non i piccoli sindaci locali, che finiscono nel tritacarne. Chi governa e chi fa le leggi, sono loro a dover segnare il cambio di passo. Si prendano la responsabilità di cambiare, senza approfittare di certe circostanze per farsi della dubbia pubblicità sulla pelle di chi soffre.

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