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LA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO

L’Europa occidentale di fine anni sessanta era ancora una società neorealista, materiale, dove la classe intellettuale discuteva di marxismo e salariato. È in questo contesto storico, precisamente nel 1967, che il filosofo, scrittore e cineasta francese Guy Debord intravede nella filigrana della pellicola in bianco e nero le luci della società dello spettacolo che in poco tempo avrebbero preso il sopravvento e sovvertito il mondo.

Nel testo “La società dello spettacolo” Debord intuisce che l’immagine, la rappresentazione, stesse diventando la nuova merce di scambio della società industriale: la vera essenza della merce è la spettacolarizzazione, la merce non viene più acquistata per essere consumata, ma per la sua carica simbolica, per il suo “carattere feticcio”. 

“Lo spettacolo non è che l’ultima proiezione della merce, privata del suo valore intrinseco e ridotta a puro valore di scambio, il capitale a un tale grado di accumulazione da diventare immagine.”

Ed è così, in questa relazione tra immateriali*, che ogni tentativo di affermare il vero con la prassi perde di efficacia, perché lo spettacolo integrato si mescola completamente alla realtà e la ingloba al suo interno.

* Debord lo definisce “irrealismo della società reale”

Ne parliamo con Marco Maggio, giornalista televisivo, scrittore e docente universitario, che in questi anni ha osservato l’evoluzione dello spettacolo, inteso come potere dell’immagine nelle sue forme più disparate, da diverse angolazioni. Il suo è un punto di vista eclettico, che mischia il tono nazionalpopolare del salottino televisivo, a uno sguardo più acuto sulla società e il costume, ma anche a un approccio di tipo accademico quando parla ai suoi studenti di retorica e advertising.

 

Marco, tu che quotidianamente hai modo di osservare le trasformazioni dello spettacolo e del suo pubblico di riferimento, in che modo credi che il suo carattere simbolico si sia infiltrato nelle vite di ciascuno di noi? Dove risiede questo potere intangibile, immateriale?

Partendo dal presupposto che oggi dello Spettacolo io sono un mero operaio di bassa leva (o un complice quindi, se preferisci), credo che la risposta sia facile quanto tragica… le trasformazioni di cui parli (dello Spettacolo E del suo pubblico) sono in realtà le medesime, per una ragione: il pubblico È lo Spettacolo. Sempre più. Perché forse bisognerebbe ricordare che lo Spettacolo non ha alcun fine: “il fine è niente, lo sviluppo è tutto. Lo Spettacolo non vuole realizzarsi che solo in se stesso”, scrive Debord.
Basti pensare ai cosiddetti “People Show”: micro narrazioni comuni che diventano universali e che permettono a chi guarda di immedesimarcisi senza più quel piglio aspirazionale (proprio dell’advertising per intenderci), ma con l’illusione prettamente televisiva che si trasforma in legittimazione. Se ieri abbiamo conosciuto la democratizzazione del lusso, oggi incontriamo quella dello Spettacolo. Uno show a portata di tutti, dove quel “tutti” è sia protagonista che spettatore della propria alterità.

Nella “Società dello spettacolo” uno degli aspetti che Debord registra con maggiore preoccupazione in quella che sarebbe stata la vera rivoluzione epocale è la distanza (sempre maggiore) tra il reale e la sua rappresentazione, come se la percezione individuale del mondo e la narrazione che ne deriva, potessero cambiarne i connotati. 

“Le immagini che si sono staccate da ciascun aspetto della vita si fondono in un corso comune, in cui l’unità di questa vita non può più essere ristabilita. La realtà considerata parzialmente si afferma nella sua propria unità generale in quanto pseudo-mondo a parte.”

Mi viene in mente un documentario che ho visto recentemente su Netflix, “The Tinder Swindler”, in cui un ragazzo israeliano di umili origini riesce, costruendo delle personalità fittizie sui social network, a truffare una serie di ragazze in diversi paesi, per un totale di circa 10 milioni di dollari, e a vivere una vita nel lusso più sfrenato grazie ai soldi delle sue vittime. A te è mai capitato di subire una separazione molto forte tra realtà e finzione? Dove l’illusione (e penso al mondo dell’arte, del cinema, della letteratura) ha un ruolo benefico e dove invece diventiamo le vittime di una truffa?

Quotidianamente: prendiamo il caso di un servizio televisivo da realizzare per raccontare la storia tragica di un qualsiasi ospite. L’obiettivo è dichiarato: farlo commuovere, al fine di rivelare la sua parte più emotiva al pubblico che guarda e che è affamato di pathos. Ricorderò sempre la prima volta che successe: l’ospite X in lacrime dopo aver visto il suo racconto riassunto in un video – ossia “spettacolarizzato” – e il “bravo Marco, così si fa” del mio capo di allora. All’epoca mi commossi insieme all’ospite, ascoltandolo in cabina di regia con i colleghi. Sviluppai empatia nei suoi confronti. Oggi, sarei falso se non lo ammettessi, me ne compiaccio: significa che ho fatto bene il mio lavoro di “professionista”. E allora mi chiedo: non è già questa una separazione molto forte tra realtà e finzione? L’illusione è salvezza (vedi Leopardi, che tutto era meno che un pessimista, come viene superficialmente descritto), eccetto che per un soggetto: chi la crea. La Natura dello Spettacolo è matrigna e non si cura della separazione che crea tra realtà e finzione, per tenere il parallelismo leopardiano…

Lo spettacolo, in tutte le sue forme particolari di informazione, pubblicità, propaganda, etc…, non può però essere compreso solo come un abuso del mondo, piuttosto dovremmo intenderlo come una Weltanschauung, una concezione del mondo e della posizione che l’uomo ne occupa, tradotta materialmente, in sostanza una visione del mondo che si è oggettivata, che nello spettacolo ha trovato un suo statuto concreto: “Lo spettacolo non è un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta…costituisce il modello presente della vita socialmente dominante. Esso è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo conseguente”.

Quello che Debord sottolinea, osservando la parabola dell’economia capitalista, è come si sia passati da un modello fondato sull’avere prima che sull’essere (effetto del boom economico) a uno fondato sull’ostentazione di questo avere, come se avere semplicemente qualcosa non bastasse più, ciò che possediamo non ha più un valore intrinseco ma trae il suo prestigio dalla sua possibilità di essere mostrato, raccontato.

Secondo te esiste un modo in cui la rappresentazione di ciò che abbiamo non solo non ne tradisce la natura, ma al contrario racconta qualcosa di ciò che siamo, ricongiungendo questa separazione di essere e avere?

Ma infatti io non credo ne tradisca la natura… le due “alternative” non si escludono necessariamente: se la prima fase del dominio dell’economia ci aveva messi difronte alla degradazione dell’essere in avere, oggi siamo ben oltre… “L’avere” si è fatto da tempo “apparire”, da cui ogni “avere” desume la sua funzione, dice proprio Debord. Metti questo nel contesto in cui ciascuna mini realtà individuale si fa sociale e capisci che, a questa stessa realtà sociale, è permesso apparire solo in ciò che essa NON È. Per dire male quel che penso: la rappresentazione di ciò che siamo/abbiamo dice qualcosa di noi nella misura in cui escludiamo ciò che abbiamo appena rappresentato.
Siamo quel non detto, “quel che resta di inesauribile segreto”. Almeno, questo ciò che penso io, va da sé.
E l’indagine filosofica più interessante dal mio punto di vista rimane infatti capire cosa è questo Essere. Ammesso che “siamo”, cosa siamo è tutto da capire ancora.

Spesso la comunicazione di massa e i suoi strumenti (pubblicità, tv, radio, carta stampata) sono accusati di mistificare la realtà al solo scopo di polarizzare i ruoli di potere e il consumismo schizofrenico che li produce: la spettacolarizzazione non ha forse anche il fine di deformare per far notare qualcosa che diversamente passerebbe inosservato?

Nulla di vero, nulla di falso, ma tutto squisitamente verosimile: è il Verosimile la terra fertile sulla quale lo Spettacolo fa crescere i suoi lussuosissimi palazzi. Ricorderai forse anche tu una frase cara al Rettore del nostro liceo: “bugie mai, verità mai tutta”. Un motto caro ai gesuiti, e non per caso.
Quanto all’inosservato… esiste?!
Quanto al fine: mi ripeto, ma deve esser chiara almeno questa certezza: lo Spettacolo non ha fine se non quello di realizzarsi.

Quando venne pubblicato “La società dello spettacolo” molti lo additarono come una lettura esasperata del processo sociale in atto: il potere che Debord attribuiva ai media e alla loro comunicazione sempre più tentacolare non poteva certo rovesciare la società, piuttosto ne avrebbe influenzato alcuni ambiti a essa circoscritti. Oggi che invece nessuno può razionalmente negare le previsioni di Debord (che per certi aspetti ci sembrano persino delle banalità), non resta che verificarne le sue conseguenze pratiche: il governo dello spettacolo “che attualmente detiene tutti i mezzi per falsificare l’insieme della produzione nonché della percezione, è il padrone assoluto dei progetti che plasmano l’avvenire più lontano”; la centralizzazione del suo potere ha progressivamente ostacolato la formazione di un’opinione pubblica lucida- quindi di una critica adeguata- che, di fronte a questa parodia del mondo reale (Debord la definisce “il falso indiscutibile”), risulta paralizzata, arresa all’idea che una distinzione tra vero e falso sia del tutto preclusa.

Non posso non fare riferimento alla grandissima diffusione di notizie a proposito della pandemia che negli ultimi due anni ha fustigato il mondo intero e quelle molto tristi e sconcertanti delle ultime settimane sulla guerra in Ucraina: come difendersi da clickbaiting, informazione spazzatura e spettacolarizzazione?

Non vorrei usare quella frase stracitata che recita “il vero è un momento del falso, e viceversa”, ma l’ho appena fatto. Io non sono un cronista, mi occupo di fumo e ne sono tutta la paradossale pesantezza. Una pesantezza atavica. Una insostenibile leggerezza del NON essere.
Ma da operaio dello spettacolo riconosco presto (immodestamente) quando la cronaca si sporca con la (sua stessa?) spettacolarizzazione; me ne allontano e mi domando: “come farà lo spettatore medio a capire che questa non è “vera” cronaca?!”. È un problema di portata così importante e dalle conseguenze così gravi che andrebbe trattato a sé. Sicuramente il consiglio sta in una delle primissime “avvertenze deontologiche” dal mondo del giornalismo: la verifica delle fonti, il loro confronto, e oggi anche nella possibilità di interagire con l’autore di una notizia, per chiedere conto della sua veridicità. Ma la gente legge i titoli e là si ferma… senza la volontà di approfondire non c’è salvezza né speranza. Moriranno, costoro che non vanno oltre intendo, con un titolo sulla lapide che sarà tutto ciò che su di loro c’è da sapere.

“L’unica impresa interessante è la liberazione della vita quotidiana” 

Prima di salutarci voglio riportare un aneddoto condiviso da un amico di Debord, il compositore francese Jolivet, che traduce molto bene questa frase.

Ricorda Jolivet: “Ho saputo della sua partenza (da Parigi nel 1991) quando mi è stato restituito il cartoncino d’invito a una mostra che gli avevo mandato”. La busta diceva: “Partito senza lasciare l’indirizzo”.

Anche a te è capitato di partire senza lasciare l’indirizzo? Dove ti senti davvero in una dimensione che ti appartiene e dove invece sul palcoscenico di un grande spettacolo?

Cazzo (si può dire?!), questa è la più difficile e l’hai lasciata per ultima: carogna!
Forse per eccesso di responsabilità, no: non mi è mai capito. Ammetto che è un sogno, una fantasia. Ma forse non un vero e proprio bisogno, sai? Il vero viaggio uno se lo prende e lo fa e lo esige da se stesso anche circondato da mille persone e con quattro cellulari al seguito per essere super reperibile h24, 7/7. Come ci vogliono a lavoro, ad esempio. Il segreto è saper dire “no”.
E io sto lentamente e faticosamente imparando a farlo.
Ma tornado all’aneddoto: se partissi di proposito con l’intento di non lasciare indirizzo e trovassi anche “la dimensione che mi appartiene”… mi chiedo: non sarebbe già quello, tra io e me, un grande Spettacolo?

 

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