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di Andrea G. Parasiliti

 

Marinetti, anche da morto, avrebbe voluto ancora combattere, e per questo gli serviva un corpo. Il fondatore del movimento futurista lo chiede, infatti, a Ezra Pound nel Cantos LXXII:

«Bé, sono morto,
Ma non voglio andar in Paradiso, voglio combatter
ancora
Voglio il tuo corpo, con che potrei ancor combattere»

Non esageriamo dicendo che il corpo fu una ossessione per il fondatore del futurismo. Quel corpo che è strumento indispensabile per la lotta e che da questa viene plasmato, mutilato – ma nell’estetica marinettiana, il senso è quello di abbellito, moltiplicato dalle protesi di acciaio (E pensiamo all’invito alle donne a preferire i Mutilati, in Come si seducono le donne oppure al Manifesto dell’Uomo Moltiplicato e il Regno della Macchina).

1909-1910

Mafarka è l’impaginazione, il ritratto per parole – in movimento – dell’uomo futurista. Appare subito NUDO FINO ALLA CINTOLA (e questa immagine che tornerà spesso nel corso della narrazione, sembrerebbe un sintomo di orgoglio infernale e dantesco) dai gesti agili, spalle color di rame, BRACCIA TATUATE DI UCCELLI (le quali lasciano già presagire la nascita del figlio alato – ma il tatuaggio è anche simbolo dell’incontro fra la carne e il ferro), grande voce azzurra, pelle di serpente, fulvo, «muscolatura inquietante delle gambe alle quali il sudore dava luccicori esplosivi […]. Occhi di un bel nero di liquirizia che fiammeggiavano violentemente al sole, troppo vicini fra loro, come quelli degli animali da preda».

E tale è Mafarka, animale da preda, il cui senso preponderante è l’olfatto. Narici che accomunano Mafarka al proprio cavallo, animale caro all’arte simbolista, e pensiamo a Segantini e a Boccioni, per quello che il cavallo in sé rappresenta: lasciando stare Platone e il suo Fedro, guida l’uomo la notte, ma è anche in grado di comunicare con MONDI INVISIBILI. E giacché i simboli non hanno mai una sola faccia, possono comunicare sia con l’inferno sia col paradiso. In ogni caso, ha il fiuto per l’ignoto, nella sua corsa galoppante verso la X, quella X, che torna spesso in Marinetti, di derivazione Kantiana e Nitzcheana, la quale X, direbbe Achille Bonito Oliva, è la vita.

Sembra esserci tutto, ma manca la cosa più importante: l’immortalità.

Mafarka invoca Allah e poi con la nascita del figlio alato, parto della propria volontà, si assiste alla distruzione del Creato.

Nell’islam di Mafarka – e di essere Islam è Islam giacché ci sono le moschee e c’è pure il muezzin – c’è qualcosa che non torna.

«Versami sul cuore la tua lava. […] I tuoi raggi di lava rossa mi colano per le vene. O mare di fuoco non fuggire lungi da me».

C’e l’ha col Sole, Mafarka, ma questo Sole è fuoco. È fuoco infernale. Della Ghenna, del vulcano e dell’inferno. Certo, il poeta è ladro di Fuoco, diceva Rimbaud, e Marinetti – ci ricorda già all’inizio degli anni ’70 Gaetano Mariani, nel suo Il Primo Marinetti – Rimbaud lo leggeva.

Ci sono sempre metafore vulcaniche in Marinetti. Nella Conquista delle Stelle del 1902 – a tal punto essenziale e propedeutica al Manifesto del 1909 che Giampiero Mughini, nel catalogo della sua ormai fu collezione futurista in vendita presso la Libreria Antiquaria Pontremoli di Milano, sembra asserire che il futurismo nasce appunto con la Conquista delle Stelle – ebbene dicevamo che in questo poema cosmico la montagna di Marosi, dell’esercito di onde, attraverso la quale il diavolo, vuole abbattere le stelle – le quali oltre a ricordare il sentimento tanto aborrito dal primo futurismo, simboleggiano l’ordine cosmico – si trasmuta in vulcano dai quali sparare in alto i cadaveri fosforescenti, a piramidi.

Elemire Zolla in Radicare la bellezza al di là della bellezza, riferendosi all’arte contemporanea e alle avanguardie, ci dice che «l’eversione delle forme è salutata come opera giusta e buona, che lascia la materia ben disgregata, possibilmente in ebollizione» e poi continua «si useranno materie sinistre come il ferro e l’acciaio legate simbolicamente alla morte – con conseguente tirannide del nuovo, del moderno dell’arte vulcanica».

Rimane il fatto che il Sole, Uovo dei Filosofi di tradizione alchemica e vetero egizia – come ebbe a definirloMarinetti Glauco Viazzi in quell’Ainsi parla Mafarka el Bar – questo Sole, che diventa Chioccia di Rame, defeca negli occhi a Mafarka. Ed è tutta una iniziazione

Se Mafarka è Marionetta, le cui fila stanno nel manifesto del futurismo, Guzurmah è il Robot.

Vola il pupo robot di Marinetti, ma sono ali della volontà, non dello spirito dell’Ippogrifo di Muhammed (su di Lui la pace) né quelle della ragione ariostesca, per andare sulla luna a riprendere il senno. E il senso di quelle ali si legge nell’intervista che Mario Carli, padre dell’arditismo italiano, condirettore della rivista «L’Italia Futurista» ma anche delle Edizioni di Poesia (le codirige a Piacenza quando escono gli Indomabili 1922) – il quale, tanto per riportarlo alla memoria parlò dopo il duce e Marinetti a piazza San Sepolcro 1919 – quell’intervista dicevamo che Mario Carli fa a Caproni (non Giorgio, ma Giovan Battista, ingegnere aeronavale pionere dell’aviazione italiana autorità indiscussa presso l’aereoporto di Toledo a Milano), e che Carli pubblica nel numero 5-6 settembre ottobre di «Haschish» nel 1921 a Catania, la più bella rivista futurista siciliana dopo la «Balza Futurista».

vrrrrrrrr….. gli angeli non esistono più… vrrrrr… ogni volo distrugge un angelo… vrrrrr ogni colpo di elica è una vittoria sul vuoto

Mafarka, invoca Allah, certo, e questo fece arrivare a dire a qualche analfabeta delle religioni, che Marinetti fosse musulmano. Mafarka al Bar, «mare scoppiettante» dicono in appendice all’edizione Mondadori, ma mare in arabo è BaHr, ritmo, poesia delle onde ma soprattutto metrica (ci ricorda lo shaik Mouseh Moueli della confraterita sufi Jerrahi Halveti di Milano), e la metrica è tutto un omaggio alla perfezione del Creato, un omaggio alla sezione aurea dei fiori e delle foglie. Ciò che Marinetti con l’amore per Gustav Khan, ideatore del verso libero, poi rivolge a se stesso ed eruttando le parole in libertà – quando, come ci ricorda Palazzeschi, non bastò il mezzo litro di acqua ghiacciata tracannata a spegnere il suo fuoco – ha praticamente violato. Ma Mafarka potrebbe non venire da Mafriq come Bar, forse, non viene da mare. Mufarakat el Bar è colui che si allontana, colui il quale si aliena dal Bene, da ciò che è Giusto, che spicca il volo come Guzurmah, l’eroe alato immortale e senza sonno, a cui il re di Tell el Kibir, darà il bacio, effondendogli lo spirito, un bacio da vampiro di Sogni (il sogno di Mafarka), bacio di stelle morenti (come nella Conquista delle Stelle), fintanto che, come prescritto il figlio uccide subito il padre, schiantandolo nelle rocce. Un figlio che ha l’incubatrice nel fuoco, acceso da Mafarka sulla spiaggia, per attirare verso gli scogli i tre velieri da crocifiggere, da sacrificare in onore del pargolo, che soggiogherà il Sole ucciderà a colpi di fallo metallico la madre Gea, e vedrà la terra scossa da terremoti e vulcani, con tanto di riapertura di abissi marini.

Così, la grande speranza del mondo, il gran sogno della musica totale si realizzava finalmente nelle ali di Gazurmah… Divina Brama della Poesia! Desiderio di fluidità! Nobili consigli dei fumi e delle fiamme!

 

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