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di Sara Datturi

 

Tutto lento, il profumo dell’estate che inebria ogni cosa, luce che si riflette in questi edifici disordinati, mattoni rossi, architettura liberty, suolo che si sfalda sotto i piedi, culture intensive per crescere pesci in un’acqua con elementi non troppi chiari né salutari.
Lasciarsi dondolare dai ricordi di ciò che è stato, di un’infanzia cresciuta circondata d’amore, di tricicli rossi, cieli azzurri, sapore intenso di grano, manine che si stringono, un fischiettare intermittente tra le viti. Linee curve di colline infinite dove ogni colore era un pennarello senza sfumature, senza dubbi.
Nostalgia positiva, voglia di non dimenticare l’uomo che è stato mio nonno, che è e sarà. Cerco dentro di me i primi ricordi che ho di lui, intrecci di racconti mistici ed eventi davvero vissuti.
Cleto, un nome importante, una responsabilità che un tempo le famiglie italiane donavano alla nuova prole per ricordare e dare significato a chi è stato un elemento forte della famiglia, ma anche come strumento simbolico per mantenerne viva la memoria. Ecco, lui ha preso il nome di suo nonno, un piccolo proprietario terriero di Pometo dove la famiglia Gasio si era fatta conoscere negli anni per la sua capacità di gestire bene le vigne, coltivare la terra rossa, lavorare duro tra questo sali e scendi di campi, il bestiame, le figlie che andavano fare la stagione delle mondine e a raccogliere il riso fino a Pavia, i ragazzi che instancabili ripercorrevano avanti e indietro campi per la semina, la mietitura, la raccolta dell’uva e della meliga.
Il padre di mio nonno, Adolfo (nome dato poi a mio zio) per riuscire a dare la dote per le sue sorelle è andato in Argentina a fare fortuna, a lavorare nella fabbrica dell’Invernizzi. Emigrazione, sudore, in una società dove la povertà, la miseria erano la realtà, dove il rischio di salpare, prendere una nave, andare dall’altra parte dell’oceano era una necessità, una scelta di sopravvivenza, un’avventura che avrebbe potuto portare una possibilità in più o il nulla in ritorno. C’è chi ha scelto di emigrare in città dentro l’Italia, c’è chi è andato nel nord dell’Europa, il mio bisnonno Adolfo è andato in Argentina a seguire questa voce che girava all’epoca di grandi risorse, di opportunità, fortuna.
Della sua vita in Argentina non si sa molto, lettere sbiadite in quella carta sottile ingiallita profumata di antichità e di dolcezza. Il bisnonno Adolfo (detto Siur Dulfo, podestà del paese) si assicurava che le sue sorelle stessero bene, scriveva saluti affettuosi e abbracciava quella vita di villaggio e famiglia che sicuramente deve’ essergli mancata. Parole semplici, scritte con una calligrafia riccioluta, elegante, solenne, forte. Adolfo era un uomo carismatico, forte, di una grande umanità e dedizione. Una volta raccolti tutti i soldi torna in Italia, a Pometo, dove trova ad aspettarlo la sua terra, le colline, volti conosciuti, il sudore, la responsabilità di dover lavorare sodo per l’amore della sua vita, Erminia a cui voleva tanto bene, i suoi figli, mio nonno Cleto e mia zia Nicoletta.
La seconda guerra mondiale era già alle porte, tanta terra da gestire, lui che diventa il centro della vita pubblica e del municipio, sempre ad aiutare chi ne aveva bisogno. In questo paesello dolcemente accomodato in cima alle colline, le dodici famiglie che si spartivano la terra hanno sempre coltivato insieme anche se le trame umane non sono di certo mancate.
Mio nonno Cleto cresce con il mito di suo padre, lavora e impara da lui la responsabilità di portare avanti non solo la vita della famiglia, ma anche l’audacia e solidarietà di condividere il sudore e lavorare per il bene comune della comunità umana che lo circonda. Ad attorniare questa vita di paese, c’è il curato del paese, un cattolicesimo addolcito da buon vino e pane con il salame, una parte fondamentale per questa comunità, per cercare di darsi qualche spiegazione in più a tanta fatica, sofferenza e al dolore di una guerra che certamente nessuno di loro aveva chiesto. Le donne erano anche loro contadine attive, parte integrante e fondamentale della sopravvivenza della famiglia e del paese, anche loro tra i campi, a seminare, dare l’acqua, attualizzare l’arte di orti rigogliosi con i migliori pomodori a cuore di bue del mondo. Il mio nonno da subito si è riconosciuto per la sua curiosità ed intelligenza, tanto che all’età di quattordici anni era pronto per essere iscritto alla scuola superiore agraria, una grande rarità per l’epoca, considerando che il livello di educazione generale era la quinta elementare e i mezzi di trasporto per raggiungere la città di Voghera erano pochi e costavano molto.
Mio nonno Cleto all’età di quattordici anni con la guerra all’orizzonte e alle porte, tra le sue corse in bicicletta, le partite di carte con i suoi amici, il lavoro tra i campi con il suo babbo è costretto a diventare grande, a dover diventare lui il pater famiglia. Suo padre Adolfo si ammala gravemente, gli viene amputata una gamba ed è costretto a letto. Il sogno della scuola superiore e di un possibile riscatto sociale, la curiosità forse per un futuro diverso, per capire cosa voleva dire scendere tra le mura di queste colline deve essere stato uno shock, un turning point nella sua vita. La consapevolezza che da quel momento in poi non avrebbe mai lasciato Pometo, anche durante la guerra, i saccheggi, i militari di tutti i colori e le fazioni, lui è rimasto l’uomo che ho avuto l’onore di conoscere, ascoltare, abbracciare, baciare e amare. L’uomo con le sue mani grandi grandi che quando ero piccola mi soffermavo a vedere da sotto il tavolo dove insieme alla mia nonna Gina facevano ogni settimana fantastiche pagnotte di pane fatto in casa nero, in inverno gli gnocchi e la pasta. Rituali scanditi dal ritmo delle stagioni, del ciclo della terra di cui lui ne aveva colto l’essenza, e l’anima. L’asse di legna che mettevano sopra il tavolo della cucina, la stufa accesa, il caldo tiepido di un inverno che avrei voluto non finisse mai, le uova giganti delle loro galline a cui mia madre bambina aveva dato loro un nome per ciascuna, al centro di una montagna di farina bianca macinata ancora al mulino. Le sue mani che impastavano ritmiche formando un impasto giallo e compatto pronto per essere poi passato e ripassato nella macchina della pasta con la manovella. Il profumo di farina, le sedie e la casa tutta che si riempiva di pasta per giorni interi.
Mio nonno Cleto ha conosciuto mia nonna Gina da piccoli, nelle strade e tra i campi di un paese così piccolo che era una famiglia allargata, dove vi era la pometo “down town” e “up town” , casa di sopra e di sotto. Mia nonna era di casa di sopra, e mio nonno di sotto. Mia nonna m’ha rivelato di un corteggiamento tra i campi, di scambi di sguardi, di sorrisi nascosti, di cerimonie di messe con il cuore sotto sopra. Si sono sposati, a diciotto e diciassette anni, con la vita davanti, le loro colline, il cielo d’aprile all’orizzonte, le pannocchie con i loro chicchi possenti, pronti per vendemmiare anni e anni insieme. Da questo amore sono nati mia madre Patrizia e mio zio Adolfo in onore del papà di mio nonno. Anni di grande lavoro, la meccanizzazione agricola, il trattore, la zappatrice, il cortile e l’aia, la “casa di là”, le mucche, anatre, l’orto, il giardino e il mulato, nomi di parti dei nostri cambi, dolcemente affacciati in lati diverse di queste colline dove non esistevano e non esistono confini né recinzioni. Colline pettinate ad uva, pinò, moscato, risling, barbera, e nelle loro cime campanili di altrettanti paeselli dove mia nonna conosce vita, morte e miracoli di ogni persona viva e al campo dei santi.
Io e i miei fratelli abbiamo conosciuto mio nonno dolcemente, crescendo. Abbiamo fatto i primi passi nel cortile dei miei nonni, imparato ad andare in biciletta, scorrazzato tra i campi liberi con i nostri cugini e amici, tra il grano più alto di noi… le lotte con i ragni ape, la terra così secca d’estate che facevamo finta di essere le guardiane di mondi di pupazzi fatti di terra, i covoni di fieno che diventano cavalli alati.
Sapore dolce in bocca, vendemmie infinite che si trasformavano in feste e momenti in cui vedere amici e famigliari, tavolate lunghe che prendevano tutto il cortile. Estati passate a non vedere l’ora di andare dai nonni, a Pometo, ad aiutare il nonno a creare le sue prelibatezze culinarie, a tagliare la legna, spellare un’anatra, contare i nuovi coniglietti nati e le zampe delle loro madri ritrovate la mattina dopo. Lui, il suo dolce sorriso, le sue mani grandi, la sua rigidità ed autoritarismo, testardo, amante del suo vino, orgoglioso della sua famiglia, della sua terra, di sua moglie, dei suoi figli e nipoti.
Ogni sacrificio l’ha realizzato e fatto per amore. Un amore umile, silenzioso, costante, intelligente, pieno d’umanità ed ironia. Cleto sapeva vedere il bello ovunque, nella sofferenza, nel sudore del coltivare la sua terra, nel gioco di carte con i suoi amici, nel vedere la famiglia crescere, nel riuscire a mandare i suoi figli alla scuola superiore, nel comprare loro un nuovo paio di scarpe, nel vederci ridere e raccontare i nostri viaggi. La rigidità ed orgoglio di un tempo si sono trasformati negli anni, facendolo diventare un uomo di una dolcezza infinita… come ha saputo trovare il bello in ogni lato della natura che cresce, come ha saputo imparare l’arte del coltivare cantando e correndo tra le vigne, così è capace di apprezzare ogni singolo giorno di quest’esistenza, anche adesso che non vede più, che dipende da tutto da altre persone per vivere, oggi anche da una macchina a cui è collegato. Invece di provare disperazione, rabbia, ha imparato ad usare le orecchie per ascoltare tutto, per ridere alle battute buffe di mio padre, per riconoscere il rumore dei passi di suo figlio, è stato capace di affinare il tatto e riconoscere la mani di sua figlia, il profumo di sua moglie.
Grazie nonno per avermi insegnato l’arte di assaporare la natura, e trovare il bello in ogni cosa, ogni tuo esempio, ogni parte di te e di pezzo di vita che ho avuto l’opportunità di assaporare al tuo fianco è parte di me, di noi e con orgoglio e dedizione ti prometto che la porterò avanti, in ogni luogo e pezzo di mondo che avrò l’opportunità di vedere e vivere tu sarai con me e la terra che abbiamo sarà il turning point della nostra generazione. E io ti ricordo così, a cantare tra le vigne correndo, con le tue braccia abbronzate e forti, la tua testa alta, la dignità di un professore, l’eleganza di un principe, il nostro principe.

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