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di Elisa Muzio

 

Può essere giusto l’insonnia da influenza a spingermi la notte di Santo Stefano a guardare la trasmissione del Tg2 Storie. Eppure l’ultimo servizio di questa trasmissione Rai in seconda serata, per qualche strana coincidenza, non solo l’ho visto… ma l’ho anche incredibilmente apprezzato. Protagonista Giorgio Orazi, perugino doc, collezionista di uno dei capolavori della letteratura contemporanea: Il Piccolo Principe. Una favola da adulti, che piace anche ai bambini, uno dei libri più letti e tradotti al mondo, uno dei temi più usati nel web per raccontare e raccontarsi, c’è chi colleziona le frasi più celebri, chi le edizioni pubblicate nei vari paesi, come Orazi appunto, che con la sua collezione in via di sviluppo ha sentito il bisogno di tradurre la tanto amata opera nel suo dialetto: nasce così L Principe Cinino.

Per una che ha studiato Filologia Italiana, non dovrebbe essere argomento di cui sorprendersi quello del dialetto, ma sicuramente il suo attuale utilizzo merita una riflessione!

Sono sempre più rari i casi in cui il dialetto viene utilizzato come unica lingua, ma a fronte di questo negli ultimi anni si registra un crescente aumento dell’utilizzo alternato o frammisto all’italiano. Persino a Milano, probabilmente la più europea tra le città italiane, si sentono giovani che parlano di scighera – per indicare la nebbia fitta dell’ultimo periodo, di cadrega – quando si riferiscono alla sedia, e anziché utilizzare il verbo prendere, preferiscono il più conciso ciapa.

Rispetto a venti o trenta anni fa, è profondamente cambiato l’atteggiamento della comunità parlante nei confronti del dialetto. Anche per effetto della diffusione sociale ormai fondamentalmente generalizzata dell’istruzione scolastica e della lingua nazionale, oggi il dialetto non è più sentito come la varietà di lingua dei ceti bassi, simbolo d’ignoranza e veicolo di svantaggio o esclusione sociale; gli atteggiamenti nei suoi confronti, almeno in molte regioni, non sono più stigmatizzanti com’era ancora pochi decenni fa. Conoscere e utilizzare un dialetto, oggi, è valutato positivamente; rappresenta una risorsa comunicativa in più nel repertorio individuale, a disposizione accanto all’italiano, di cui servirsi quando occorre e specie in virtù del suo notevole potenziale espressivo.

Difficilmente usato con estranei, l’utilizzo frammentario del dialetto rende un colloquio informale e più confidenziale. È dunque un arricchimento e non più un impedimento.

L’Italia è una delle nazioni con la più variegata quantità di lingue differenti al suo interno. E se vent’anni fa il dialetto sembrava in via d’estinzione oggi è più che mai tornato in auge, la sua presenza nella comunicazione spontanea in rete coinvolge prevalentemente le giovani generazioni, quelle meno propense alla dialettofonia e allo stesso tempo quelle che giocano il ruolo più cruciale per il futuro. Per loro l’acquisizione del dialetto avviene nella maggior parte dei casi non a livello materno – credo di non aver mai sentito mia madre pronunciare mezza parola in milanese – ma sia pure in modo frammentario e incompleto sono i nonni e l’ambiente circostante che ancora conservano l’anima dilettale vera e propria.

Una risorsa per l’Italia di oggi a cui attingere, con cui confrontarsi: le mille facce di una stessa lingua, da leggere, studiare, capire e apprezzare. Senza vederlo come un ritorno alle origini, ma come un aiuto per la conservazione di una lingua utilizzata per le opere letterarie più belle di tutti i tempi. Forse – come ci insegna Il Piccolo Principe – ricordare di essere stati bambini ci fa essere dei bravi adulti, riscoprire il nostro dialetto ci aiuta ad apprezzare e conservare la nostra lingua.

Un commento su “Riscoprire il dialetto per non dimenticare l’italiano

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