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di Matteo Minelli

Ogni volta che un nuovo fatto di sangue sconvolge le campagne in cui lavorano i migranti la parola schiavitù prende vita nei titoli dei giornali, nei commenti televisivi, nelle chiacchiere da bar. È una parola forte schiavitù, una parola che evoca scenari infernali, in cui sudore, fame e violenza azzannano i corpi martoriati degli uomini e delle donne posti sul gradino più basso della scala sociale. Appartenere a qualcuno, essere equiparato agli animali da soma e perfino agli oggetti, essere venduto e comprato a piacimento, non possedere alcuna libertà che non sia quella di servire il proprio padrone. Tutto ciò ha significato essere schiavo. E per questo solo sentire parlare di schiavitù ci indigna e ci fa ribollire il sangue, ci rattrista e ci rende rabbiosi.

Però in fondo in fondo ci fa stare anche un po’ più tranquilli di come dovremmo essere. Possiamo essere sereni,dopo tutto, non soltanto perché la schiavitù la conosciamo, e per questo ci fa meno paura. Ma soprattutto perché è una cosa del passato. Dell’epoca dei romani che la imponevano ai popoli assoggettati, dei tempi degli afroamericani costretti a sfacchinare nelle piantagioni di cotone, dei giorni in cui la vita dei servi della gleba russi era inscindibilmente legata alla terra dei loro padroni. Perciò il ritorno della schiavitù, nelle campagne della nostra Italia, non può che essere una presenza occasionale e fugace. Frutto di qualche errore dell’evoluzione che deve aver chiuso un occhio oppure sbagliato strada, ma che presto tornerà sui suoi passi per correggere lo sbaglio e riprendere la sacra via del progresso.

E se qualcuno si azzardasse a dire che la condizione in cui si trovano oggi i migranti che lavorano in molte campagne italiane è assai peggiore di quella degli afroamericani nel Sud schiavista di metà ottocento, cosa accadrebbe? Se qualcuno affermasse che oggi, in Italia, si stanno realizzando modelli di sfruttamento dell’individuo talmente audaci che a loro confronto la schiavitù potrebbe apparire come il male minore, cosa gli direbbero? Gli direbbero che si sbaglia, che è in errore, che la ruota della storia non può prendere questa piega. E invece la sta prendendo, per questo la condizione dei migranti che sfacchinano nei campi di pomodori o negli aranceti, è assai peggiore di quella di molti schiavi afroamericani nel profondo Sud.

I braccianti stranieri sono nella maggioranza dei casi “irregolari”, “clandestini”. E anche coloro che hanno un regolare”imprimatur”, lo ottengono proprio grazie al lavoro nei campi. Una posizione alquanto precaria, che li espone al ricatto costante dell’infame filiera in cui lavorano, e perfino di chiunque decida di denunciarli alle autorità. Gli schiavi afroamericani erano una proprietà, e pur non possedendo alcuno status giuridico, erano evidentemente in una posizione di legalità che seppur miserevole non li esponeva al ricatto di nessun altro che non fosse il loro padrone.

La vita dei braccianti stranieri non ha alcun valore. Molti di loro soffrono e muoiono lavorando, uccisi dalle fatiche disumane, dal caldo torrido, dall’impossibilità di fermarsi anche solo per un attimo. Se un migrante muore il caporale semplicemente ne sceglie un altro al suo posto, non è difficile visto l’enorme bacino di disperati da cui può attingere. La vita di uno schiavo invece è sempre stata una questione della massima importanza, visto che rappresentava un investimento considerevole. Per questo motivo nessun padrone dotato di un minimo di intelligenza ha mai trattato con sufficienza la salute dei propri schiavi. Sfruttarli si, sfiancarli anche, picchiarli certamente, ma mai e poi mai lasciarli morire. Tanto più che nelle economie schiaviste del Sud, specialmente dopo la legge che ne proibiva la tratta, non è mai stato facile sostituire uno schiavo come oggi è facile sostituire un migrante.

Le condizioni di lavoro dei braccianti stranieri sono estreme, fuori da ogni legalità. Anche sedici ore di fatiche quotidiane per una ventina di euro, spesso impiegati per comprare acqua e cibo dalla stessa mano che li affama e li asseta. Gli schiavi in diversi stati del sud avevano un orario di lavoro regolato per legge e difficilmente erano impiegati per più ore di quanto venivano utilizzati gli operai agricoli bianchi. I riposi nelle ore più calde della giornata erano frequenti e diffusissima era la consuetudine di lavorare il meno possibile e con trascuratezza nelle situazioni in cui il controllo si allentava.

Le condizioni di vita dei migranti in agricoltura sono a dir poco squallide. Letteralmente accalcati in campi lager posti ai margini dei centri urbani o in aperta campagna, privi di acqua corrente, elettricità, dove il cibo è scarso e l’igiene è nulla. Gli afroamericani nel sud erano solitamente nutriti in modo adeguato, poiché i loro padroni sapevano che era il primo modo per farli rendere al meglio. Molti documenti dell’epoca attestano che gli schiavi ricevevano regolarmente farina, bacon, granoturco, sale, melassa e in diverse proprietà gli veniva concesso di allevare animali e coltivare un proprio orto, i cui prodotti potevano non solo essere consumati ma perfino rivenduti a loro beneficio. Spesso le loro abitazioni erano poco più che capanne e ovviamente non avevano servizi, ma a differenza dei braccianti stranieri di oggi, allora condividevano tale sorte con la stragrande maggioranza degli uomini bianchi.

I braccianti stranieri nelle nostre campagne vivono in perenne insicurezza. Le liti all’interno delle loro comunità, le violenze dei caporali, la repressione governativa sono all’ordine del giorno. Per non parlare degli episodi di razzismo a cui sono sottoposti, dell’odio e del pregiudizio che li accompagnano in ogni contesto sociale. Gli schiavi afroamericani potevano subire ogni sorta di angheria da parte dei loro padroni. Ma al di fuori di questa categoria nessuna autorità pubblica o privata poteva arbitrariamente torcere un solo capello ad uno schiavo. Anzi il paternalismo su cui si basava l’intera società sudista faceva si che la stragrande maggioranza dei proprietari provasse riprovazione nei confronti di chi trattava in maniera brutale i propri schiavi. Una riprovazione che poteva anche trasformarsi in violente condanne pubbliche.

E si potrebbe proseguire a lungo.

Certo molti diranno che le attenzione che i “gentiluomini” del sud nutrivano per i propri schiavi non erano diverse da quelle riservata alla propria carrozza o al proprio abito da sera, e che non vi è nulla di altruistico nella difesa strenua delle proprie proprietà. E io concordo in pieno. Resta però il fatto che tali attenzioni impedivano agli schiavi afroamericani di vivere in condizioni ancora più terribili di quelle in cui erano costretti. Condizioni che in passato hanno vissuto moltissimi “lavoratori liberi” in Europa e negli Stati Uniti. Condizioni che vivono oggi i braccianti stranieri nell’agricoltura italiana e molti altri “salariati” in giro per il mondo. Condizione che potremmo tutti tornare a vivere se continuiamo a pensare che vivere in una società democratica, avere una condizione giuridica e recepire uno stipendio ci metta al riparo da alcune delle peggiori manifestazioni di violenza e sfruttamento che la storia abbia mai conosciuto, quelle appunto dei nostri giorni.

A questo proposito Marloon Brando, Sir William Walker nel film Queimada di Gillo Pontecorvo, aveva tristemente ragione nel dire che uno schiavo è come una moglie. Bisogna darle vestiti, cibo, una casa e medicine quando si ammala, bisogna mantenerla tutta la vita, anche quando diventa improduttiva, e infine occorre anche seppellirla e farle il funerale. Viceversa un lavoratore salariato è come una prostituta. I costi diminuiscono perché non si è costretti a vestirla, nutrirla e alloggiarla. Si paga solo per quello che fa, a ore.

È in funzione di questo squallido e totalitario ragionamento che oggi i migranti in agricoltura vivono e lavorano in condizioni che nemmeno gli afroamericani delle piantagioni sudiste hanno mai dovuto sopportare.

Per favore non alleggeriamo la coscienza dei loro padroni, non nascondiamoci  la verità. Non chiamiamola schiavitù.

 

Il passaggio del film Queimada in cui Marloon Brando convince i latifondisti dell’isola ad abolire la schiavitù per una più economica manodopera salariata.

 

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2 commenti su “Molto peggio della schiavitù: migranti e agricoltura.

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