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Per me un foglio di carta è come una foresta per un fuggiasco.
Andrej Sinjavskij

 

Scrive Susan Sontag che da bambina promise a sua nonna che avrebbe vinto il Premio Nobel. A dodici anni leggeva commossa Le meditazioni di Marco Aurelio, a tredici Martin Eden, a quattordici disse che avrebbe scambiato cinque anni della sua vita per uno di quella di Stravinskij. Ebbe amori tormentati e si sentì inadeguata alle feste. Scrisse romanzi, film, saggi critici e reportage che rimarranno nella storia della letteratura. Nel mentre, riempiva diari e taccuini. Morì di leucemia il 28 dicembre 2004, senza aver vinto il Premio Nobel. È sepolta nel cimitero di Montparnasse. Mentre moriva, io ero nella taverna della casa dei miei nonni, in un paesino ai piedi della Majella; inventavo storie con i Lego ricevuti in regalo per Natale, al calore del fuoco appena acceso. Sotto la brace avremmo poi cotto le patate arrotolate nel cartoccio. Circa quattro anni dopo, in quella stessa taverna, in seguito a un avvenimento fortuito che accrebbe improvvisamente la mia autostima, avrei detto ai miei nonni che da grande sarei diventato uno scrittore. Non avevo ancora: avuto un rapporto sessuale, guidato, letto i racconti di Ernest Hemingway.
Susan Sontag, nei suoi diari, definisce Ernest Hemingway: grazia sotto pressione.
Oggi, conosco molta letteratura americana e scrivo dei diari e dei taccuini di Susan Sontag, cercando i punti d’incontro tra lei e me. I punti d’incontro tra tutti noi. Questo soprattutto mi interessa: trovare i minimi denominatori che ci accomunano.

Nei suoi diari, Susan Sontag riporta pensieri e aneddoti che l’hanno accompagnata nei giorni. Uno di questi narra che, prima di morire, Gertrude Stein si risvegliò dal coma e chiese alla sua compagna: “Alice, Alice, qual è la risposta?” La donna disse: “Non c’è risposta.” Gertrude Stein rispose: “Allora, qual è la domanda?” Subito dopo morì.
Ho sempre creduto che la verità fosse una domanda. Domandare implica un’apertura di possibilità; significa nascere. Rispondere, al contrario, implica una chiusura di possibilità; significa morire.
Leggere i diari di Susan Sontag mi ha fatto pensare alla scrittura in senso stretto, a quale sia la sua funzione. Mi sono chiesto se la scrittura sia una mia esigenza endemica, se sia la mia verità, la mia domanda.

Mentre la casa editrice Nottetempo acquisiva i diritti per la pubblicazione di tutta la produzione di Susan Sontag, io scrivevo l’incipit del mio primo tentativo di romanzo. Diceva: Mia madre mi incontrò per caso, mentre passeggiavo lungo la strada illuminata dai lampioni. Uno si accendeva e spegneva a intermittenza.
Volevo raccontare il momento in cui si abbandona la giovinezza. Mi suggestionava l’idea che una madre incontrasse suo figlio per caso, come se ormai non fosse più cosa che la riguardava. Mi suggestionava altrettanto l’idea che quel lampione difettoso fosse il coraggio di percorrere la nostra strada, che ci accompagna e ci abbandona, a intermittenza.
Pochi giorni fa, ho sentito mio nonno che diceva a mia nonna: è la rovina di sua madre, vuole metterle in testa che vuol fare il libraio. Parlava di me.
Questo avvenimento è uno spartiacque nella storia dei miei ultimi giorni. Prima ero euforico, avevo appena finito di scrivere la prima stesura del romanzo e l’avevo inviata ai piani alti. Poi, l’assenza di riscontri e le parole di mio nonno hanno rovesciato tutto. I miei sogni erano arrivati a un livello tale che ogni passo indietro verso la terra si rivela, ora, una lacerazione profonda.
Scrive Susan Sontag: credo che la cosa più desiderabile al mondo sia la libertà di essere fedeli a se stessi, vale a dire l’Integrità.
Mio nonno era certamente mosso da un sincero timore per il mio futuro quando ha detto quello che ha detto. Lui, che voleva studiare la letteratura ma ha fatto carriera in banca, girato il mondo, costruito una casa in montagna in cui poter tornare. Eppure, non teneva conto di molto altro. Per esempio, che l’unico modo per avere un futuro che valga la pena avere sia inseguire in primis le proprie e più profonde propensioni. Di essere, insomma, fedeli a noi stessi.

Scrive Susan Sontag: la paura di invecchiare viene nel momento in cui si riconosce di non vivere la vita che si desidera.
Ho passato giorni interi a credere che la strada che stavo percorrendo fosse solo un’illusione, che prima o poi la luce si sarebbe spenta e avrei brancolato nel buio. Che non avessi una sola qualità spendibile nel prestigioso ed esclusivo bazar in cui si baratta la felicità. Poi, però, ho passato altrettanti giorni a credere di essere dall’altra parte del bancone. Che con le mie parole avrei potuto illuminare la strada di chiunque, come i miei scrittori preferiti hanno fatto con me. L’insegnamento che trarrei da questa storia è che, se ti accorgi dell’una e dell’altra cosa, ti rendi anche conto che nessuna delle due è inconfutabilmente vera. Quindi, alla fine, abbiamo scelta.

Dico a Emma: bisogna solo riconoscere ciò che per noi è importante, per poi dedicarci fino in fondo a quella cosa.
Mi dice: non tutti lo riconoscono, non tutti sono fortunati come te.
S’incupisce, mi incupisco anch’io. Mi sposto in salotto a leggere sul divano i diari di Susan Sontag.
17 agosto 1954: Philip, il marito di Susan, le chiede se desidera del formaggio sulla pasta. Susan gli risponde titubante: solo un pochino. Ma poi versa l’intera ciotola di formaggio nel piatto. “D’un tratto” scrive Susan Sontag “ho capito perché David (loro figlio) può rifiutare una cosa con veemenza e al tempo stesso accettarla. Per il bambino la vita è interamente incentrata su se stesso e non vi è in lui alcun impulso alla coerenza, che rappresenta già una limitazione del desiderio.
Leggo questo passaggio, ancora imbronciato sul divano, e sbircio Emma che batte al computer la sua tesi di laurea. Spesso, penso, rifiuto e accettazione ci tirano e ci spingono via a intermittenza, illuminano e rabbuiano la strada come un lampione difettoso. Il nostro sforzo credo sia di provare a riconoscere quale delle due forze sia autentica, dove per autentica si intende conforme alla nostra integrità.
Così, prendo dallo zaino un mandarino e una risma di fogli con alcuni miei racconti. Poggio il mandarino sui racconti, mi avvicino a Emma e faccio scivolare tutto sul tavolo. Per te, le dico. E lei sorride.
Non vi è stato, in me, alcun impulso alla coerenza, alcuna limitazione al mio desiderio di farla sorridere. La coerenza, talvolta, ci rovina. L’incoerenza rompe lo schema, rendendoci liberi. La bellezza dei diari di Susan Sontag potrebbe risiedere proprio nella totale assenza di una coerenza a sorreggerli. Questo soprattutto mi ha colpito: l’autenticità della scrittura, nel momento in cui non si preoccupa affatto delle reazioni che può generare né di pregresse ambizioni.

Una cosa di cui mi sono accorto è che le persone si rivelano quasi sempre sorprendenti quando si denudano dei loro ricordi (nella misura in cui per ricordi si intendono le paure che generano in noi schemi di coerenza), quando, cioè, agiscono spinti da nient’altro che il loro naturale istinto d’appartenenza alla razza umana.
Scrive Susan Sontag: d’ora in poi scriverò tutto quello che mi passa per la testa. Non posso parlare a me stessa, ma posso scrivere per me stessa.
Credo sia questa la funzione più utile della scrittura, mettere in ordine un disordine; il miracolo avviene nel momento stesso in cui si riempie una pagina.
Io, per esempio, scrivo soprattutto per accorgermi delle cose che mi accadono in testa e così facendo mi abbasso la febbre. La febbre è il vortice emotivo in cui ti ritrovi immerso di tanto in tanto quando sei giovane e spaesato. Quando il lampione si accende e poi si spegne di continuo, e ci sono giorni interi che, per quanto tu sia convinto delle promesse che hai fatto a te stesso, non sai davvero se riuscirai a rispettarle.

Scrive Susan Sontag: ogni epoca ha la sua fascia anagrafica rappresentativa – la nostra è la giovinezza.
Io e i miei amici, da queste parti, siamo totalmente disabituati ad accorgerci delle piccole cose che succedono nelle nostre teste. Quelle cose – udite, udite – diventano la realtà. E la realtà è un fatto piuttosto rilevante. Io e i miei amici, qui, spesso non ritroviamo la strada (il lampione rimane spento anche per molto tempo) e sentiamo il peso di invecchiare. Allora non andiamo più a letto, illusi che la notte non finirà e mai arriverà un altro giorno. Ma un altro giorno arriva e ci lascia immobili nel bel mezzo del vuoto, del paesaggio lunare – come lo chiama Susan Sontag.
Il bello è che abbiamo scelta e abbiamo coraggio. L’abbiamo da sempre, al pari della paura.
Scrive Susan Sontag, in una fredda notte di capodanno: per l’anno nuovo voglio fare una preghiera. Prego di trovare il coraggio.
Attraverso la scrittura (dove la scrittura è metafora di qualsiasi cosa, seppur minima, sia per noi importante) possiamo essere tutti più coraggiosi. O, meglio, possiamo scoprire quanto in verità siamo tutti dotati di un immenso coraggio, di una naturale propensione all’incoerenza, che ci permette di fare cose davvero grandiose con quanto abbiamo a disposizione, anche col dolore.
Penso solo quando scrivo, scrive Susan Sontag. Pensare significa continuare a domandarsi, impegnarsi costantemente a nascere e mai a morire. Nascere o morire – che ci crediate o no – è una scelta quotidiana. Quando scrivo trovo il mio coraggio, la mia strada è illuminata, continuo a camminare anche dovesse far buio.

Nottetempo sta pubblicando i diari e i taccuini che Susan Sontag scrisse dal 1947 alla sua morte, in tre volumi.
I primi due, Rinata e La coscienza imbrigliata al corpo, vi aspettano a Edicola 518, mentre il terzo è in prossima uscita. Nottetempo ripubblicherà anche l’intera produzione saggistica della Sontag, il cui valore è, per me, inestimabile.

 

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