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In filosofia si deve calare nell’antico caos e sentircisi a proprio agio.
Ludwig Wittgenstein

 

Anni fa ero in ospedale a trovare un amico: vagavo assorto nei miei pensieri tra i corridoi quando casualmente mi sono imbattuto in un vecchio compagno di università. Erano anni che non lo vedevo. Si era trasferito dopo gli studi in Filosofia in Norvegia per cercare lavoro ed era riuscito ad entrare nel giro delle assicurazioni. Gli chiesi se la filosofia gli fosse risultata utile in quel nuovo percorso; mi rispose in modo sgarbato: «La filosofia non è serva di nessuno».

Stava Citando Aristotele:«La filosofia non è serva di nessuno, ma sappi che proprio perché priva del legame di servitù è il sapere più nobile».  Rimasi un po’ in silenzio. Sentire questa frase nelle corsie di un ospedale, circondati da malati bisognosi di cure, risultava piuttosto bizzarro. Anche io la avevo usata in qualche occasione, ma ormai non la riuscivo più a sopportare. Applicata nel suo contesto, ovvero la Grecia di 2300 anni fa, aveva anche un suo significato, equivalente per certi aspetti all’idea riassunta dalla battuta di Feynman sulla fisica, per cui «La fisica è come il sesso: avrà anche dei risvolti pratici, ma non è per questo che si fa».Privata del suo contesto sembra invece voler elevare il filosofo al di sopra degli altri, indifferente ai problemi quotidiani che affliggono l’umanità. Il mio disaccordo però richiedeva una risposta forte alla domanda, e io avevo solo molti dubbi. La conversazione scemò velocemente, qualche convenevole e poi ognuno per la sua strada, senza più rincontrarci.

Anni dopo e molti chilometri di distanza mi trovavo a rovistare tra le la montagna di carta dell’Edicola 518, quando mi sono imbattuto in The Philosophers’ Magazine.  The Philosophers’ Magazine è, come si può immaginare, una rivista di filosofia. Come ogni rivista di filosofia la caratteristica principale è l’incredibile varietà di domande più o meno esistenziali che riesce a porre nei vari numeri usciti. «Could our sense experience all misleading?» «What does it means to be right?» «Is empathy a good thing?» «What is a question?» «What is dirt?» «Is it ok to let my child be stung by a wasp?» «Is Rick Sanchez a good educator?» «Was Hume a secret Buddist?»

Ma ben più di una mera carrellata di domande (indubbiamente molto interessanti) The Philosophers’ Magazine nasconde tra le sue pagine qualcosa a mio avviso di ben più importante: L’idea della filosofia come una disciplina profondamente concreta.

«Ma cosa significa quindi fare davvero filosofia?» − si chiedono a più riprese gli autori più volte nei vari numeri della rivista. Fare filosofia è innanzitutto imparare un metodo: il metodo filosofico. Il metodo filosofico è, in primo luogo, la continua analisi del rapporto tra l’uomo e la conoscenza. È desiderare la verità, ma allo stesso tempo essere consapevoli di quanto sia inafferrabile, e di come a volte contraddica le nostre convinzioni più profonde. Non è un esercizio storiografico in cui vince chi conosce il maggior numero di pensatori del passato, come invece troppo spesso viene fatto intuire a scuola, in quella carrellata di informazioni cronologiche su vari pensatori che già Hegel definiva come una assurda «filastrocca di opinioni». Non è neppure l’equivalente della chiacchiera, come invece molti pensano, per cui «ognuno ha la sua filosofia», come se fosse l’esposizione di opinioni equivalenti, in cui la verità svanisce lasciando posto a una relatività improduttiva (per questo sono molto legato alla frase di Deleuze a proposito di Nietzsche: non è la verità a essere relativa, ma la relatività ad essere vera). I limiti della conoscenza passano necessariamente per i limiti della nostra mente e del modo in cui indaga la realtà: L’indagine sul reale deve sempre partire da qui.

Noi infatti, come dice Peter Medawar «non siamo mucche che brucano l’erba della conoscenza». Conoscere qualcosa non è mai semplicemente un puro atto osservativo. Ogni indagine sulla realtà non avviene in modo automatico: necessita di un approccio, di un metodo. Conoscere infatti non è e non semplice accumulazione di dati. Non possiamo semplicemente osservare un determinato aspetto della natura e sperare che le informazioni si depositino automaticamente in una struttura ordinata pronta per la stampa. Quella è stata la grande illusione del positivismo. Come dimenticare le teorie false del passato, come la teoria del Flogisto o la teoria del Calorico, le quali sono errate ma allo stesso tempo sempre basate sull’osservazione empirica?

Personalmente ho sempre immaginato che il mondo della conoscenza fosse un mondo a sé. Un po’ come la Zona di Tarkovskij, non appena qualcuno vi accede tutto si comincia a muovere e gli appigli sicuri vengono meno. Ad ogni nuova scoperta vecchie strade scompaiono e ne appaiono di nuove, «posti prima sicuri diventano impraticabili, e il cammino si fa ora semplice e facile, ora intricato fino all’inverosimile»È un mondo con le sue regole: un solo passo falso e si finisce a seguire chimere per tutta la vita, rincorrere idee folli e deliranti senza mai rendersene conto.

 La filosofia non è quindi questione di conoscenza ma di comprensione, ovvero dell’organizzazione di ciò che è saputo e di ciò che ancora non è saputo, o come dice Russell Marcus nell’articolo Philosophical Method: «One job of the philosopher is to see how it all fits together». È la difficile arte di sapersi addentrare nei territori incontaminati dell’incertezza dove la verità si nasconde ed è sfuggente, dove l’atteggiamento di chi crede di sapere già tutto non viene perdonato. «To teach how to live without certainty, and yet without being paralyzed by hesitation, is perhaps the chief thing that philosophy in our age, can still do for those who study it». Modifico l’impalcatura architettonica di ciò che conosco in una nuova combinazione ed ecco comparire nuovi aspetti di realtà che prima mi erano invisibili e inaccessibili.

Questa visione ha diverse implicazioni particolarmente utili al mondo contemporaneo: la più importante (e secondo me più urgente) è la presa di coscienza che tra filosofia e scienza non c’è contrasto ma soluzione di continuità. Una disciplina rimane filosofica fintantoché i suoi concetti non sono stati chiariti e i suoi metodi rimangono controversi. Ma come dice Anthony Kenny «Forse non si danno mai concetti scientifici pienamente chiarificati, né metodi scientifici del tutto incontrovertibili; e se le cose stanno effettivamente così, in ogni scienza vi è sempre un elemento filosofico residuo».

È con queste idee che The Philosophers’ Magazinesi libera finalmente dello sgradevole snobbismo elitario che molti filosofi hanno fatto proprio, per cui la filosofia si occupa di cose non terrene e può porsi al di sopra dei problemi concreti della società. Sfuggire da queste concezioni è davvero importante, consapevoli anche del fatto che la società sta vivendo un drammatico impoverimento di dialogo e nuove forme di fanatismo. Credo che tutti noi sentiamo un impellente bisogno di scrollarci di dosso le illusioni del passato e cercare nuovamente la verità, senza quella stantia sensazione di auto celebrità infruttuosa.

Ma tutto questo è ribadito in maniera ancora più netta in quello stupendo approfondimento sulle neuroscienze nel numero 83 di ThePhilosophers’ Magazine: Neuroscience.

Cosa ci fa un approfondimento sulle neuroscienze in una rivista di filosofia? In parte è stato già risposto: filosofia e scienza non sono in competizione ma bensì sono due passi egualmente indispensabili nello stesso percorso della conoscenza, soprattutto difronte a discipline relativamente nuove come le Neuroscienze. Ma oltre a ciò, le Neuroscienze hanno dimostrato di avere un impatto notevole sull’idea che l’uomo ha di sé stesso, grazie alle sue scoperte estremamente importanti sulla natura dell nostro cervello.

Parlo di scoperte come l’esperimento di Libet, analizzato nell’articolo Is Free Will Dead (Again)di Alfred Mele, per cui è stato dimostrato, grazie a strumenti di analisi dell’attività del cervello come EEG e fMRI, che l’attivazione neurale prima di un atto motorio (come alzare un braccio) precede di quasi 1 secondo la consapevolezza dell’intenzione di attuare quell’atto motorio. La coscienza quindi viene spodestata dal suo ruolo demiurgico e cessa di essere quell’entità che governa il corpo come il nocchiere governa la nave. Ma non solo: esiste un disturbo neurologico chiamato blindsight per cui, in conseguenza di un danno cerebrale, come un ictus, alcuni soggetti perdono completamente la capacità cosciente di vedere, ma, sorprendentemente, riescono a muoversi senza difficoltà nell’ambiente, schivando oggetti e ostacoli, senza avere idea di come ciò sia possibile. Oppure il disturbo di somatoparafrenia, per cui pazienti colpiti da ictus all’emisfero destro (precisamente all’LPS) non solo perdono a volte il controllo della parte del corpo controlaterale, ma negano recisamente di possedere quel lato del corpo. È chiaro come questi disturbi gettino una nuova luce sulla natura della coscienza e dell’identità.

Il fatto è che c’è un abisso tra cosa si è e cosa si sa di essere. Noi tutti siamo umani ma ciò non comporta il sapere cosa significhi essere umani, e indagare questa realtà può svelare verità a cui non siamo forse del tutto preparati ad accettare. A ben pensarci sono cose già accadute nel passato, quando per esempio l’uomo non era preparato ad accettare che la Terra non fosse al centro dell’universo (e qualcuno ancora adesso) o che l’uomo non è la creatura prediletta di Dio. Una scoperta scientifica può portare a una profonda crisi esistenziale.

L’articolo Neuroexistenzialism di Gregg Caruso approfondisce proprio questo. Cos’è, infatti, l’esistenzialismo? Non è altro che la risposta a una diminuzione nella propria immagine personale a causa di riarrangiamenti o rotture politiche/sociali. Si sviluppa nell’espressione dell’ansia filosofica per cui non ci siano profonde certezze che garantiscano alla vita umana un significato. Storicamente ci sono state tre tipi di onde esistenzialiste: la prima, di Kierkegaard, Dostoevsky e Nietzsche, esprimeva ansia riguardo all’idea che questo significato fosse garantito da Dio. La seconda onda esistenzialista di Sartre, Camus, e De Beauvoir riguardava un’ansia post-olocausto sulle illusorie «magnifiche sorti e progressive». Oggi sembra proprio che stiamo entrando nella terza onda esistenzialista: il neuroesistenzialismo.

Il neuroesistenzialismo esprime l’ansia per cui le scoperte scientifiche sulla natura del cervello umano disincantino la nostra idea su cosa sia l’uomo. Ogni giorno le neuroscienze rimuovono l’ultimo vestigio di un sé immateriale, di una qualsiasi forma di anima nell’uomo. La mente è semplicemente la somma di processi neurali e l’introspezione è uno strumento poco efficace per rivelare come funzioni la mente. «There is no ghost in the machine or Cartesian theatre where consciousness comes together, and our sense of self may in part be an illusion». sottolinea Gregg Caruso. È difficile accettare che l’idea di tradizione Cartesiana di un «fantasma in una macchina» (ovvero di un’anima immateriale che governa un corpo immateriale) sia falsa. Ci sono delle evidenze − come dice lo psicologo Paul Bloom nel suo libro Descartes’ Baby− che tutti noi nasciamo con una illusoria idea dualista sull’uomo, e rompere questa illusione porta dietro di sé necessariamente un grande dolore.

Personalmente queste scoperte mi hanno gettato in una profonda crisi. Io stesso, nonostante mi sia considerato a volte il più ateo tra gli atei, mi sono dovuto scontrare con il fatto che in realtà, pur non ammettendolo, avevo fede che esistesse una sorta di anima inviolabile. Pensavo che l’irriducibilità della coscienza a qualcosa di fisico le garantisse una condizione di sacra intoccabilità, e che in questa condizione avesse posto anche l’idea di un Io immateriale che governa il corpo. Credevo molto all’idea della coscienza come il nocchiere della nave. Ma è stata proprio la complessa varietà di emozioni provata durante lo studio di questi esperimenti che mi ha spinto a modificare il mio percorso universitario e indagare cos’altro riservasse questa disciplina ancora così poco definita, con le sue strade inesplorate.

The Philosophers’ Magazine è stato per me esattamente questo: mi ha aiutato a ricordare che è tutto parte del gioco, che il reale per sua natura eccede sempre la comprensione che si ha di esso, e che non c’è tradimento più grande che scambiare la realtà con l’idea che si ha di essa.

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