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di Pancrazio Anfuso
Che cos’è la normalità? Me lo chiedo mentre cammino tra le case fantasma del mio paese. Cerco di rispondermi con qualche esempio: alzarsi la mattina, andare a lavorare, tornare a casa, mangiare, dormire, lavarsi, stare con i propri cari.

Mi rispondo ma non riesco, guardandomi intorno, a scorgere segni di normalità. Non c’è niente di normale in questo sciamare di persone che si trovano fuori contesto e fuori stagione. Sono le facce dell’estate ed è inverno. Dicono cose diverse dal solito. Si salutano frettolosamente, guardano verso la strada, aspettano qualcuno di fuori.

Si trovano qua in un giorno feriale perché sono state convocate, con gentilezza, dai volontari del CoC, il centro Operativo comunale di Amatrice che da quattro lunghi mesi galoppa, come un criceto nella ruota, per cercare di mettere in fila tutti gli adempimenti necessari a riordinare le esistenze scompaginate dal terremoto.

Uno sforzo immane che somiglia un po’ alle rincorse a perdifiato che una volta facevano, in televisione, i concorrenti di Giochi Senza Frontiere, aka It’s a knockout, Jeux Sans Frontières, Spiel ohne grenzen. Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi soffiavano nel fischietto, dopo un breve conto alla rovescia, e lo scalmanato concorrente partiva di corsa su un piano inclinato dove qualche perfido ostacolatore faceva scorrere in senso contrario dell’acqua insaponata. I capitomboli a faccia avanti si sprecavano, e ogni volta si ricominciava da zero.

Qua l’ostacolo, bello grosso, se l’è inventato sua maestà il terremoto, signore delle sorti della gente del posto. Una bella scrollata di groppa e si azzera il lavoro di due mesi, prego ricominciare daccapo. E così si torna, gli occhi abbottati di sonno, le mani intirizzite dal freddo, a darsi le pacche sulle spalle come se fosse ferragosto e si potesse mettersi d’accordo per andare per funghi, a caccia o a mangiare la pecora in montagna. La normalità, appunto, in questi posti.

Ma non si può fare, non può succedere, perché siamo qui in un giorno in cui, se prima ci capitavi, sentivi soltanto il vento che spostava le fronde, in quei boschi che da bambini frequentavamo con un po’ di strizza. La Tizzonara, la Pozza de lu lupe, Valle cupa, la via Piana, lu Poiale.

Sentivi le fronde, vedevi un uccello, per strada trovavi una lingua di ghiaccio dove scorreva un po’ d’acqua, ti fregavi le mani per il freddo, prendevi la macchina e te ne andavi a inforchettare due spaghetti all’Amatrice o a Sommati o da Santino al lago. Ora sono tutti chiusi, e non per ferie. E il lago è vuoto o quasi. E la strada è chiusa, e chiuse sono le vie di accesso da nord, che ti costringono a rifare la Provinciale umbra, che è una via di una bellezza incomparabile, raspata dagli spazzaneve, che sale da Norcia ai Savelli alla Civita e s’inerpica curva dopo curva a passare fino in cima, o quasi, ai piedi della Vena Gentile, dove c’erano le aquile e i segni di quella che pare una vecchia via di ghiaccio.

Non è normale fare queste strade, da quando Costantino Rozzi e i suoi colleghi rivoluzionarono la Salaria e le vie di trasporto principali e si passava filando come il vento, in barba agli autovelox, e i luoghi che si scandivano da bambini nell’avvicinamento al Paese erano tutti fuori vista: Pallottini, le Collicelle, la Meta, il bivio de li Casali, e chi ci passava più?

Non è mica normale passare di nuovo là, non sono soltanto i mucchi di macerie, che non sono normali, non c’è più niente che sia come prima anche se mancano, come dice Pirozzi, soltanto quelli che non ci sono più. Gli altri, col cuore e con la mente, ci sono tutti. Manca però la normalità.

Non è normale questo paesaggio smontato, questo viavai di gente che brulica nei campi che una volta si coltivavano e ora servono da base per quelli che operano all’abbozzo dei primi passi verso la ricostruzione. Non è normale che sia tutto chiuso e che nessuno aprirà per tanto tempo, non è normale questa via Romanella che passavamo in pochi, lambendo le fronde che invadevano la strada, i cantonieri spariti da quel dì, da quando non si facevano più i lavori socialmente utili con cui portare a casa qualche soldo per bercisi il fegato all’osteria.

Un po’ di sole al lago, il Ponte a Cinque Occhi che era pericolante e pareva una specie di prova di coraggio attraversarlo, e se lo passavi magari ti fermavi poi a bordo strada e sparivi nei campi a ritirare il premio per l’ardimento mostrato alla passeggera.

La Romanella è una strada nuova, l’unica, che basta e avanza per un traffico che di normale non ha più niente, si fanno giri viziosi che una volta ti avrebbero preso per matto e si cerca inutilmente un punto di riferimento, un posto che sia normale ancora un po’.

Ne trovo uno quando non ci credevo quasi più, è il ristorante di Torrita, la Valle, che anche se è pieno come non mai, non certo in un giorno di mezza settimana di dicembre, ti dà da mangiare cose buone a prezzi commoventi. Che mi piace pensare solidali. E quando esco ritrovo fuori, a fumare, un amico, Luigi, che non vedevo da chissà quanti anni e che lavora lì.

Mentre lo abbraccio penso che non è normale incontrarsi così, che sarebbe stato meglio farlo in una sarabanda polverosa di saltarelle, suonate da Enzo o da Gianni sulla piazza del Colle, a Pasciano o alle Forcelle, o a Torrita.
Piazze dove non si ballerà più per anni.
E non è normale.

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