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di Francesco Thérèse
Lavoro nel centro di Roma, nell’opulenza; nell’opulenza romana:
sciatta e volgare.
Arricchita.
A venti minuti da lì c’è il reale, con tutta la sua umanità.
Mi lascio alle spalle tutti i silenzi di ogni bocca aperta di ogni
turista che si ferma a leggere i prezzi in vetrina, per farmi
confondere dalla parlantina veloce, vivace, eccessiva nei toni e
disperata nel colore di ogni cittadino del mondo che si trova a
Torpignattara, dove vivo.
In giornate di cielo terso, è possibile vedere tutta l’estensione
delle rotaie che da Termini tagliano come lunghe attese le fiumane
della Casilina. Dopo dieci minuti di tram, scendo dove scende il
mondo, percorro Via di Torpignattara e svolto dove ha volato un
aviatore, a metà strada fra le barricate partigiane, un acquedotto
romano ed una santa imperatrice.
Ci sono angoli bui anche di giorno, infestati da un desiderio di
oblio, dove il cuore degli alcolisti è divorato dal dovere di
rispettare il proprio ruolo nella società, mentre alcuni fra loro
camminano al contrario, birra in mano, come nel ventre concavo
della risacca sulla crosta della Terra, mentre si bagnano nella
ghiaia del Parco Sangalli.
Non c’è alcun dio a Torpignattara, ma ci sono tutte le divinità:
ci sono tutti gli dei e le cariatidi sulla facciata dei palazzi e
agli angoli delle strade. C’è Alice nel paese della Marranella, la
curcuma sparsa come tifone per coprire la vergogna del sangue sul
marciapiede, proprio dove un ragazzo è stato ucciso, ed uno si è
suicidato.
Entrambi a chiedersi a chi poter dire addio.
Entrambi sotto al sole.
Ci sono strade abbagliate dallo stesso splendido riflesso del sole
sui peschi in fiore, anche di notte. Dove le signore romane con
due fedi al dito sono in gruppo, vestite come se ogni giorno fosse
la festa della Madonna dell’Urione, e alcune di loro le puoi
trovare sedute ad un angolo di un bar a far fare i compiti a due
bambine cinesi che in amicizia si fanno chiamare con nomi
italiani. Nessun fastidio può turbarle, men che meno l’invidia.
Le parole che sento a Torpignattara sono senza senso, lingue
sconosciute, e per questo tutti possibili poeti di strada mezzi
addormentati, appiccicosi, tutto sommato sorridenti. I loro
fratelli, le loro madri e le loro nonne sono sedute da qualche
altra parte, a breve distanza se la si misura con lo spazio che
intercorre fra il pollice ed il mignolo di una mano posata su una
carta geografica del globo.
Hurrà! Hurrà!
Quando tornano a casa la notte nessuno è lì per aspettarli, ma c’è
sempre un’ultima telefonata da poter fare seduti sullo scalino di
quello che di giorno era un negozio. E c’è sempre qualcuno
benevolo che risponde dall’altra parte della mano: un fratello,
una madre oppure una nonna.
Un desiderio vacuo ma pur sempre il loro, di desiderio.
C’è un mondo pieno di persone con carisma e charm che camminano
per via Condotti. Così come c’è un altro mondo, lo stesso, di
persone alla cui vista ci si gira da una parte e si ride.
Ci sono umanità fatte di persone che avrebbero dovuto controllare
che si fossero cancellate le tracce del loro passaggio, delle ali
umide, bagnate, e zuppe della rovina della loro vita.
Ma questo quartiere sarà per sempre loro. E questo quartiere sarà
per sempre mio.
Questo quartiere è un sacrificio.
È una corda alla gola del tempo sprecato.
Questo quartiere è troppo bianco per essere nero, e troppo nero
per essere bianco.