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Se esisti, sii come il Kokh Zal:
il capo dei lupi, il più coraggioso.
– Proverbio chirghiso – 

Ora più che mai bisogna parlare del regno animale. Ora soprattutto, che il nostro senso d’appartenenza alla razza umana è divenuto così sfacciato (la tecnologia, la politica, la finanza, la razionalità), è importante ricordare gli animali, per ritrovare ciò che di animale si annida in noi. Per scoprire cosa siamo quando non ci stiamo solamente adattando alle circostanze, quando non stiamo solamente utilizzando ciò che il tempo e lo spazio (la società in cui viviamo) ci hanno messo a disposizione.

Quand’ero piccolo studiavo i grandi predatori su lucide riviste che uscivano in edicola il martedì: conoscevo i loro nomi, il verso che facevano, la loro stazza, l’altezza al garrese e i metodi nella caccia. Mi costruii un costume da tigre con il cartoncino bristol verde, avanzato da qualche progetto scolastico. Ero una tigre verde al pranzo coi parenti. Per il compleanno del mio amico Damiano (7 anni), gli regalai un disegno: un branco di iene che sbranavano una zebra. L’avevo ricalcato da una di quelle riviste e poi colorato coi pastelli. Ricordo pienamente: il sangue attorno al muso delle iene. Nei documentari, il sangue raggrumato e colante attorno al muso delle leonesse mi ha sempre emozionato. Una violenza che non è violenta, quella animale, priva di calcolo, di vigliaccheria e di vendetta. Mentre l’umano passa il tempo a ragionare, l’animale si abbandona alla vita.

Quando poi sono diventato ragazzo, sono divenuto un uomo. Mowgli che esce sporco dalla selva, le donne del villaggio che lo lavano nel catino. Mowgli che rifiuta lo scontro con Sherkan. Allora, ho cominciato a esercitare l’arte del pensiero, come se fosse il discrimine necessario per ritenersi membro della specie umana. Da questo derivavano scelte ponderate, razionali o, ancor peggio, utili. Ma l’utilità – ho capito tempo dopo benché già ne avessi antichi sentori – è un fine relativo unicamente a quello che ci ritroviamo attorno nel momento in cui ce lo ritroviamo attorno; varia da epoca a epoca, da latitudine a latitudine. L’utilità – mi spiace, Professore – è una bugia. Appena te ne accorgi, tutta la vita cambia.

Verso la sofferta e malinconica fine della mia età giovane, perlomeno mi ritrovo ad aver fatto piazza pulita di gran parte dei miei non-bisogni. Così, cerco sempre più di vivere per quello che mi importa. Riflettendo sul significato di importanza, la considero il bagaglio che scegliamo di portare sulle spalle durante la nostra scalata sul crinale dell’esistenza. Il mio zaino contiene poche delle cose che, qui ed ora, vengono ritenute utili. Il mio bagaglio ha, invece, molto di animale.

Animale: dal latino animalis, «che dà vita, animato», der. di «anima».

Anima: principio vitale dell’uomo, di cui costituisce la parte immateriale.

Sulla pista animale (nottetempo) è la storia di una caccia senza preda: l’uomo che insegue l’animale. Ma la ricerca reale è l’esempio di una ricerca invisibile: la ricerca dell’animale che ci abita dentro. Baptiste Morizot – con occhio di filosofo ed etologo –  indaga i punti d’incontro tra razza umana e regno animale per suggerirci nuove ipotesi sulla vita: non più come contingenza, ma come principio universale che ci caratterizza in ogni tempo e in ogni luogo, nostro patrimonio congenito e indistruttibile. C’è qualcosa che ci unisce, indipendente dai momenti e dalle strade che solchiamo. Le storie servono proprio a individuare questa universalità. Le storie sono esempi che non dichiarano esplicitamente di essere esempi, in questo risiede la loro forza, la loro inattaccabilità.


Storia numero uno: un uomo si unisce a un pastore e conduce il gregge al pascolo. Passano la notte in tenda, sullaltipiano del Canjuers, Provenza. Alle quattro del mattino, l’uomo viene svegliato dagli ululati. Si alza, si veste di furia ed esce dalla tenda. Punta la torcia nel buio. Lì, c’è il lupo. Il lupo guarda l’uomo negli occhi – da uomo a uomo – e l’uomo dice di ricordare, in quel momento preciso, chi è. L’uomo torna a casa, racconta ai suoi figli del lupo. Il lupo, come l’uomo, predispone tutto ciò che ha per i suoi figli. Quando mangiano lontano dalla tana, per esempio, i lupi non digeriscono: tornano indietro e vomitano. Nella lingua dei segni amerindia, il segno per indicare il lupo consiste in una V formata da indice e medio che avanzano verso il cielo. Lo steso segno, rigorosamente lo stesso segno, significa: essere umano.


Storia numero due: la filosofa Val Plumwood discende in canoa il fiume che percorre il Parco nazionale del Kakadu, Australia. È sola e lontana da ogni forma di civiltà. A un tratto, un coccodrillo la assale, ribalta la canoa, la fa cadere in acqua e la azzanna al ventre. La trascina nelle profondità del fiume. Più si dimena, più l’animale serra la morsa e la porta giù. Finché la donna capisce che l’unico modo di liberarsi è smettere di opporsi. Resta immobile, e il coccodrillo la lascia andare. Val, gravemente ferita e sotto choc, trova comunque la forza di raggiungere la riva, risalire l’argine e chiamare i soccorsi. Udita la storia, i ranger decidono di formare una spedizione e andare a uccidere l’animale. Ma Val si oppone con tutta se stessa: era lei l’intrusa, l’usurpatrice. I ranger volevano reagire con la violenza alla violazione di un tabù: l’essere umano è preda e non solo predatore; è un animale e, in quanto tale, ha un posto nella catena alimentare.


Storia numero tre: un gruppo di uomini su cavalli chirghisi, nella steppa intorno al lago Song Kul, Kirghizistan, sono alla caccia della pantera delle nevi. Trovano una pista, vari indizi: feci, peli, graffiate su una roccia. Gli indizi li conducono a una grotta. Al suo interno vi sono resti di stambecco e una traccia, a malapena visibile, lasciata sulla parete. Uno degli uomini, di nome Djoki, chinatosi ad analizzare la traccia, esclama: Irbris! Nella sua lingua, vuol dire pantera. Si piazzano le fototrappole, si fanno punte e appostamenti – il contorno degli occhi abraso dai mirini del binocolo, le pupille a sfiancarsi lungo le creste lontane dei monti, solo per vedere la pantera, per vederla solamente. Come se vederla fosse averla, catturarla nell’unico modo lecito in cui si possa possedere qualcosa. Ma la pantera è estremamente paziente, nel non mostrarsi. Ha il dono dell’invisibilità (un mantra dell’ambientalista Aldo Leopold recita: mai dubitare dell’invisibile). Dice Sant’Agostino: se speriamo ciò che non vediamo, lo attendiamo con pazienza. Così, mentre gli uomini sperano immobili, per ore, di scorgere un movimento sospetto tra le pietre, una piccola macchia bianca comparire a contrasto con la tundra brulla, li coglie un pensiero certo: che la pazienza con cui loro attendono la pantera sia la stessa con cui la pantera si nasconde a loro.


Solo il pensatore occidentale (così sfacciatamente iper-umano) è tanto stravagante da credere che la saggezza consista nell’allontanarsi dall’animale che si porta dentro. Mille altre forme di vita possiedono saggezze involontarie e senza linguaggio, che possiamo imparare. Anche il linguaggio, infatti, è una contingenza. Le contingenze sono ciò che trasformano l’universale in particolare. Contingentemente, noi siamo esseri umani (un caso evolutivo). O, ancor più, siamo: appartenenti a un popolo, una religione, un’etnia, un partito politico, una lingua, una cultura, una classe sociale, una squadra, un ufficio. Ma universalmente siamo portatori di anima: animali. Come esseri umani proviamo un certo tipo di paura (il rovesciamento: la tensione di dover essere accettati dalle condizioni che noi stessi abbiamo intavolato – gli orari di lavoro, i digiuni di vigilia, la legge fiscale), ma non come animali. La paura animale non conosce angoscia, che è il nome dato al terrore quando non trova significato.

Anima: principio vitale dell’uomo. Di certo, la vita è prima di tutto un fatto di chimica e biologia. È probabile, tuttavia, che tanto non basti. Siamo resilienti, noi animali. Ci adattiamo a ogni cosa (ogni tempo e ogni spazio). Lo facciamo col sentimento, che è capace di dare un significato muto e sterminato a tutto quello che viviamo. Riflettendo su questo sentimento, gli ho dato un nome. Dice Baptiste Morizot: la grazia del capriolo è un dono del lupo. Perché, se il capriolo è tanto agile e svelto, è per sfuggire al lupo. In fenomenologia, questo si chiama dono puro: nessuno ha voluto donare, nessuno ha perduto niente donando.


Storia numero quattro: Emma che dice a Luca, guardando negli occhi coi suoi occhi di nocciola, come un lupo: credo che l’amore sia soprattutto libertà, essere se stessi all’ennesima potenza. È così che vorrei amare: donando, senza accorgermi di donare. Lui, che le lascia la sua copia dei Sillabari di Parise sul parabrezza dell’auto, prima che lei parta per l’estate. Lei, che sbuca inaspettata da un angolo di strada: il vestito a righe bianco e azzurro, le spalle scoperte come colline al sole, i capelli legati e il casco sottobraccio.


Questo rimarrà, riducendo all’osso tutto. Troveremo l’amore, sulla pista animale.

 

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